In anteprima su DiscorsivaMente il racconto Il sogno di Odoacre, inserito nell’antologia Per un pugno di storie (Roma, L’Erudita, 2019).

Il sogno di Odoacre
di Gianluca Cinelli
Il giovane Odoacre se ne stava accucciato in un angolo della grande sala, e guardava la festa dei guerrieri. Un’altra battaglia era stata vinta contro i longobardi e la tribù si raccoglieva intorno ai vincitori, ascoltando i racconti delle gesta eroiche dei caduti, i cui cadaveri erano già stati sepolti dai romani dopo lo scontro. Orde di bambini eccitati s’accalcavano intorno agli eroi e ascoltavano, mentre i narratori s’infiammavano rivivendo in parole i momenti più cruenti della battaglia. Ma la festa non sarebbe durata a lungo. Non vi sarebbe stato alcun banchetto e i guerrieri sarebbero partiti già prima di sera per ricongiungersi alla legione nell’accampamento. Non c’era stato modo di convincere il comandante della guarnigione a concedere la notte per i festeggiamenti, perché la situazione al confine era critica. Con le orde dell’est che premevano, causando ogni sorta di violenza e malcontento fra le tribù consociate, il comandante della legione voleva tutte le truppe in piena efficienza e pronte al combattimento.
Il villaggio di Odoacre si trovava nell’ampia fascia del limes, come lo chiamavano i romani nella loro lingua piena di dolci modulazioni. Non era un vero confine tracciato nella terra, ma piuttosto un’idea. Era un’ampia fascia di territorio libero, profondo e lunghissimo, e lì convivevano i romani con le tribù, commerciavano, spesso morivano insieme negli scontri con i razziatori dell’est. Il limes era permeabile e sembrava quasi aperto, ma quando si trattava di attraversarlo per entrare nell’Impero diventava più impenetrabile delle leggendarie mura di Roma. Odoacre sapeva però che un modo per attraversarlo esisteva. Combattere sotto le insegne di Roma era da generazioni il destino di tutti i giovani della sua famiglia, e lui sapeva che un giorno sarebbe approdato di là dal limes come soldato di Roma. Gli anziani ricordavano a malapena i tempi in cui i guerrieri combattevano solo per il proprio popolo. L’età del Berserker era tramontata e adesso i giovani scendevano in battaglia non più avvolti nelle pelli d’orso e di lupo, ma corazzati nelle scintillanti armature di maglia dei legionari.
Odoacre discendeva da una famiglia oscura che da generazioni donava i propri figli a Roma per le sue interminabili guerre sul confine. Molte cose erano cambiate da quando i primi legionari venuti dal sud s’erano fermati tremanti di paura davanti alle grandi foreste. Non si udiva più il canto dei bardi sulla vittoria di Arminio e non c’era un solo villaggio in tutto il limes dove lo standard di vita romano non fosse penetrato nelle abitudini quotidiane. I giovani non potevano immaginare una vita senza denaro, vino, agricoltura e senza i rudimenti di cultura che Roma aveva portato loro. I riti antichi erano andati perduti e il Dio dell’amore e della vita eterna predicato dai sacerdoti di Roma aveva preso il posto delle antiche divinità pagane.
Come tutti gli altri ragazzini, Odoacre faceva molti chilometri ogni giorno per recarsi agli avamposti romani, dove commerciava in pelli, carne, manufatti e legna. Il suo era un lavoro duro e pericoloso, perché il confine non era più un luogo sicuro come un tempo. Roma s’era indebolita, si diceva sottovoce. Circolavano voci che le legioni avessero già perso il controllo del confine e che i soldati fossero troppo pochi per tenere ancora a bada le orde dell’est. Odoacre però non credeva a una sola parola di tutto questo. Quando vedeva le fortificazioni degli avamposti e i soldati truci che le tenevano, ammirava la forza di Roma e si ripeteva che nessuno l’avrebbe mai sconfitta. È vero che i suoi amici spesso deridevano i legionari venuti dal sud per la bassa statura, ma la cosa finiva lì. Quegli uomini erano temuti e rispettati, perché in battaglia combattevano e morivano come un popolo unito. Parlavano una sola lingua e credevano in un solo Dio, e avevano delle leggi che li legavano da un capo all’altro dell’Impero, che si diceva essere vastissimo. I popoli sparsi delle tribù non reggevano al confronto, non importa quanto fossero forti e fieri. Il popolo romano era l’unione di tutti i popoli della terra. Odoacre non smetteva di ammirare il contadino alto dagli occhi blu dell’Aquitania accanto al basso mercante scuro di pelle e di capelli venuto dalla Spagna. Parlava nel suo latino rozzo con il pescatore della Bitinia e con il pastore dell’Anatolia. L’Impero era per lui il picco della civiltà che raccoglieva e governava tutti i popoli e che avrebbe presto portato la pace universale sul mondo. Così il giovane aspettava il suo turno per arruolarsi e realizzare il suo unico grande desiderio: essere ammesso oltre il confine e diventare uno di loro. Fino ad allora avrebbe tollerato di essere maltrattato, offeso o anche ingannato dai romani, che ridevano della sua enorme statura. Infatti era talmente alto che lo obbligavano a inchinarsi e persino a inginocchiarsi quando doveva parlare con loro. Anche i suoi amici gli dicevano che era solo un illuso, ma lui rispondeva che non importava se era povero e privo di parenti importanti, perché Roma aveva bisogno delle tribù per tenere le orde dell’est lontane dall’impero. E poi, aggiungeva, tutti i maggiori generali delle legioni romane appartenevano al suo popolo, non ai latini. Allora gli altri ridevano e lo chiamavano sciocco e pazzo, ma lui non se ne curava. Non c’era altro che desiderasse dalla vita se non Roma.
Gli anni trascorsero e Odoacre crebbe più forte e ancor più alto. La povertà lo costringeva a dipendere dalla generosità dei suoi vicini, ma il suo desiderio non diminuiva. Intanto le cose sul confine peggioravano perché le tribù erano inquiete. S’era sparsa la voce che Roma fosse al collasso. Il ricordo del passaggio recente di Attila era ancora fresco e le orde dell’est avevano ricominciato a premere. Tutti sembravano impazienti di banchettare sul grande cadavere di Roma. Nemmeno gli uomini della guarnigione sembravano più gli stessi di prima. Era chiaro che se fossero stati aggrediti in forze non avrebbero retto. Avevano la paura incisa sul volto e la stessa cosa si ripeteva in tutti gli avamposti. Solo i legionari reclutati nelle tribù salvavano ancora l’onore delle legioni di Roma.
Il giovane aveva appreso il latino e a maneggiare le armi. Era un discreto arciere e un rapido cavallerizzo abile nella spada e nella lancia, il che faceva di lui un ottimo cavaliere. Ma non poteva permettersi un cavallo e poi sognava d’essere un vero legionario, un fante di linea, non uno di quegli ausiliari con le ridicole corazzette di cuoio che saltellavano davanti al nemico lanciando sassi come dei teppisti. Voleva essere un triarius, con il grande scudo e la pesante corazza di piastre, la più solida difesa di Roma quando tutti gli altri sono ormai caduti davanti al nemico. Egli si vedeva già in battaglia, gladio in mano, spalla a spalla con i compagni provenienti da tutto l’impero, pronti a morire insieme per la gloria immortale.
Ma un giorno si sparse la voce che qualcosa di orribile era accaduto in un villaggio non lontano. Qualcuno, si diceva, aveva litigato con un legionario per una questione d’onore. L’uomo aveva accusato il legionario di aver insultato – ma altri dicevano stuprato – sua sorella e lo aveva sfidato in un duello per vendicare l’onore della giovane. Il legionario era stato ferito gravemente e scacciato dal villaggio e così giustizia era fatta, perché nessuno, nemmeno se indossava l’uniforme dell’esercito romano, poteva permettersi un simile crimine e passarla liscia. I parenti della ragazza, soddisfatti della vendetta, si erano raccolti in assemblea, la prima da molto tempo. Le lance erano state scosse come ai vecchi tempi e l’onore del vincitore era stato lodato nei discorsi degli anziani.
Il comandante della guarnigione vide l’intera faccenda in tutt’altro modo e spedì un manipolo ad arrestare il barbaro. La gente del villaggio tentò di respingere gli intrusi e ne seguirono dei disordini in cui furono uccisi due soldati. Alla fine il vendicatore fu trascinato via in catene, frustato a sangue e crocifisso davanti alle fortificazioni dell’avamposto come monito. La rabbia del comandante non era però ancora sedata e così fu spedita un’intera coorte al villaggio, che per rappresaglia fu incendiato. Gli abitanti che non perirono durante l’attacco vennero deportati e imprigionati in attesa del processo per sedizione.
Odoacre non poteva credere alle sue orecchie. Ecco il pugno di ferro di Roma, perché non si scherza con la giustizia. Non poteva credere che la sua gente fosse ancora così arretrata da pensare che le leggi primitive degli antenati avessero ancora posto nel mondo moderno. Opporre la vendetta alla legge! L’impero che s’estendeva dall’Oceano alle grandi pianure dei cimmeri si reggeva su due cose soltanto, le potenti legioni e il Codice delle Leggi. L’imperatore governava sul mondo in nome di quelle leggi. La vendetta era una cosa da selvaggi, un relitto dell’età oscura. Certamente il legionario che aveva offeso la ragazza non era degno d’indossare l’uniforme di Roma e meritava d’essere punito in modo esemplare. Ma l’imperatore era lontano e non sapeva quel che era successo. Se solo avesse saputo, avrebbe punito il vigliacco e imposto la damnatio memoriae. Odoacre pensava questo e sapeva che avrebbe potuto impedire che cose simili si ripetessero, quando fosse riuscito a diventare ufficiale dell’esercito romano. Ogni giorno sognava d’indossare la lucente corazza di bronzo coperta di medaglie. Non avrebbe mai permesso che simili crimini avvenissero sotto il suo comando. Avrebbe servito l’imperatore con lealtà e senso del dovere, sarebbe stato giusto e inflessibile e così avrebbe condotto la sua gente fuori dalla miseria dell’ignoranza una volta per tutte. Sotto la sua guida, le tribù si sarebbero riunite in un solo popolo insieme agli altri, per diventare cittadini del più grande impero del mondo.
E finalmente venne il giorno dell’arruolamento. Odoacre era diventato forte e maturo, pronto per lasciare dietro di sé gli ultimi legami con la giovinezza e incontrare il proprio destino di uomo. Prima di bussare alla porta della guarnigione, però, volle ancora una volta visitare il vecchio saggio che viveva come un eremita nel bosco. Il venerabile aveva reputazione di mago e guaritore, e per lungo tempo aveva portato la parola di Cristo fra le tribù, la cui fede tuttavia restava minata dall’eresia ariana. Il confine era un luogo strano, dove il passato conviveva con il presente e dove ogni cosa finiva presto o tardi con il perdere i propri contorni precisi. Sul limes un romano s’inselvatichiva mentre un germano assumeva una certa mollezza di costumi sconosciuta ai suoi antenati, ed era strano vedere le statue di marmo svettare fra le case di legno costruite alla maniera degli indigeni. Odoacre era stupefatto di come il vecchio avesse saputo allontanarsi dal mondo senza perdere la propria umanità. Viveva come un selvaggio e tuttavia parlava di cose sublimi, di anima e di carità, di Dio e dell’amore di Cristo.
«Sei un giovane coraggioso, ansioso di metterti alla prova», disse il santone dopo averlo accolto nella capanna e aver ascoltato perché Odoacre fosse così impaziente di diventare un soldato romano. «Tu non sei come gli altri, che vogliono arruolarsi nelle legioni di Roma solo per sfuggire alla miseria. Tu hai fede, e per questo io ti benedico nel nome del Signore e dico: vai in Italia, fa’ di Roma la tua dimora, e farai grandi cose per il bene del mondo intero e di quelli che lo abiteranno dopo di noi.»
Odoacre ringraziò e salutò il vecchio, poi s’incamminò risolutamente verso l’avamposto davanti al quale era rimasto tante volte ad ammirarne le mura ben guarnite di legionari provenienti da tutto il mondo. Oggi ritornava lì senza il carretto delle merci. Avvolto solo nelle pelli e nelle vesti che possedeva, il suo corpo e la sua fede erano tutto ciò che aveva da offrire come pegno per passare il confine invisibile e diventare uno di loro. Fu accolto con indifferenza dai suoi stessi simili, per i quali era solo un’altra recluta. Gli ufficiali lo interrogarono a lungo e senza interesse, gli chiesero perché voleva entrare nell’esercito, chi erano i suoi genitori, quanti fratelli aveva nelle legioni e cose così. Un centurione italico, un uomo di quarant’anni, indurito e scuro come un pezzo di pelle conciata, si accorse presto che il giovane aveva una buona mente e gli disse che avrebbe potuto diventare un buon ufficiale:
«Prima però», gli disse dopo il colloquio, «dovrai sopravvivere alle tue battaglie e conquistarti sul campo i gradi, uno dopo l’altro. Se ce la farai, arriverai a Roma. Ma ti avviso, ragazzo, Roma è una fogna. Qui potresti ancora trovare il modo di morire come un uomo, ma laggiù… potresti imparare a vivere come un ratto.»
Odoacre annuì, ripensando alle parole del vecchio santone, che l’avrebbero accompagnato per il resto della vita. Senza perdere tempo i romani lo arruolarono e le porte della caserma gli si aprirono davanti. Fu spinto sgarbatamente dentro una camerata puzzolente come una fossa di leoni e le parole del centurione gli risalirono alla mente come un senso di vomito. La strada era lunga e incerta, ma Odoacre non aveva paura perché era lì dove aveva sempre desiderato essere, dov’era nato per stare. Questo era il suo battesimo e quella notte sarebbe rinato come un uomo nuovo. L’oscurità scese sul limes e i fuochi s’accesero su tutta la linea. Odoacre era stordito dall’emozione e dalla stanchezza della lunga giornata, e il sonno venne rapido come un balsamo, e con esso venne nel cuore della notte un sogno.
Si trovava sotto un porticato bianco e una vasta città giaceva ai suoi piedi. Palazzi magnifici di marmo bianco, finemente decorati e dipinti, statue, colonne e vestiboli si estendevano ai lati del foro maestoso, dove una gran folla sciamava. Doveva essere Roma! La città era immensa e non se ne vedeva la fine, sotto il tramonto che accendeva il cielo d’occidente di sfumature rosa e sanguigne. Odoacre si teneva strettamente alla balaustra per paura di cadere in terra, perché gli girava la testa e la Città Eterna gli oscillava davanti agli occhi, come se un terremoto la scuotesse. Eppure non una singola pietra si muoveva. Solo il distante mormorio della folla si udiva nella quiete della sera. La testa di Odoacre però era rintronata dal rumore delle molte battaglie che aveva combattuto al comando dei suoi eserciti nel nord e a est, contro le tribù ribelli. Vedeva i mucchi di cadaveri sui campi insanguinati e quel che restava del suo popolo, vinto e massacrato. La visione lo angosciava e guardandosi intorno vide infine l’ombra di un uomo avvolto in un mantello. L’ombra iniziò a muoversi come per staccarsi dal suolo, finché riuscì a levarsi sui piedi come un corpo reale. Adesso gli stava davanti un uomo forte e barbuto di circa cinquant’anni, alto quasi due metri. Indossava l’uniforme romana e una corazza di bronzo da generale, e il suo sguardo era profondo e regale.
«Benvenuto», disse il generale con voce profonda. «Ti aspettavo.»
«Chi sei?»
«Io sono te, si capisce. Stai guardando l’uomo che diventerai.»
«Sei maestoso», lo ammirò Odoacre. «Sembri una statua dell’imperatore in persona.»
«Non siamo qui per conversare e il tempo è breve. Devo mostrarti qualcosa.»
I due attraversarono un grande atrio deserto, alla fine del quale una porta immetteva su un vasto ballatoio con delle colonne. Quando emersero dall’ombra, la luce brillante del mattino accecò Odoacre, stupito che fosse già trascorsa la notte. Il sole era basso sull’orizzonte e la città appariva diversa. Il biancore dei palazzi appariva sporco e tutte le statue e le colonne erano scrostate e rovinate. Qui e lì degli edifici in rovina e finestre vuote mostravano i segni del fuoco.
«Che cosa è successo?», chiese Odoacre, impaurito.
«L’inevitabile.»
«Roma è caduta?»
«Non ancora, ma cadrà, perché deve.»
Odoacre fece un passo indietro, disgustato dall’uomo che aveva davanti, l’impostore che stava distruggendo i suoi sogni di grandezza, e corse via. Ma il palazzo era un grande labirinto di stanze vuote e corridoi, vestiboli e magazzini, scale e saloni. Vagò a lungo finché raggiunse una grande porta, la aprì e si ritrovò in una sala lussuosa con il soffitto altissimo, retto da colonne d’oro. Un gruppo di persone abbigliate in pompose vesti rituali assisteva a una cerimonia in silenzio. Su una portantina sorretta da schiavi veniva condotto un ragazzino avvolto in una toga purpurea. Gli uomini intorno erano così vecchi e decrepiti da sembrare mummie. Non appena Odoacre irruppe nella sala, la cerimonia fu interrotta e tutti si volsero a guardarlo, mentre una voce cattiva attraversava lo spazio vuoto del grande salone:
«Fermo straniero e osserva: l’imperatore Romolo Augusto!»
Odoacre era stupefatto. Non poteva credere che quel ragazzino insignificante fosse l’imperatore, l’uomo più potente del mondo. Come poteva dominare sui popoli quel ragazzino ripugnante?
«Avvicinati barbaro», disse l’imperatore con una vocina querula.
Odoacre venne avanti ma con gli occhi guardava in alto, da dove provenivano sinistri scricchiolii e rumori di crepatura, come se il palazzo si stesse sgretolando.
«Avrai pure passato il confine e fatto carriera», gli disse l’imperatore ridacchiando con tono di scherno, «ma non sarai mai uno di noi. Adesso, barbaro, bacia l’anello e sparisci.»
Una manina bianca e floscia si sporse fuori della portantina e il grosso anello brillò. Odoacre afferrò la mano come una cosa morta e disse, osando alzare gli occhi sul principe:
«Maestà, le tue parole sono vili e indegne della tua fama e gloria.»
«Come osi parlare al tuo imperatore e alzargli gli occhi addosso? Non sei che un’ombra alla mia presenza. Ti farò tagliare la testa e la rispedirò in mezzo alla tua gente selvaggia.»
«Roma è salva grazie al sangue del mio popolo.»
«Sparisci, barbaro ignoto. Torna dalla tua gente primitiva, Roma non ha bisogno di te. Io non ti voglio.»
«Non sei degno di governare sul mondo!», gridò Odoacre con ira, «Non c’è giustizia nel tuo cuore. Se questa dev’essere la fine, così sia.»
Odoacre spinse il piccolo principe che cadde al suolo con un grido, poi una grande crepa gli si aprì sotto i piedi e ingoiò il ragazzino mentre l’intero palazzo crollava su se stesso.
Odoacre si svegliò impaurito, con la sensazione di essere schiacciato nel crollo delle colonne e del soffitto. Tutto era calmo e l’oscurità era così profonda che pensò di essersi addormentato nella foresta. Qualcuno però russava lì accanto e l’aria era puzzolente, così pian piano i ricordi della giornata affiorarono e si ricordò precisamente di dov’era. Si sedette sul letto cercando di calmarsi e di riordinare i pensieri. Il ricordo fresco di sentirsi chiamare barbaro ignoto gli bruciava nelle orecchie e nel cuore.
«Era solo un sogno, stupido che non sei altro», si disse sorridendo e lasciandosi ricadere sul pagliericcio. «Non badare a queste sciocchezze. Adesso sei uno di loro.»
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