Scrittore antifascista e storico dei “vinti”
Di Gianluca Cinelli
Nuto Revelli, nato a Cuneo il 21 luglio 1919 e scomparso nella sua città piemontese il 5 febbraio 2004, lascia nove libri e un’eredità morale di cui l’Italia dovrebbe essere fiera, soprattutto in tempi di come questi, di ignoranza crassa su cui cresce rigogliosa la politica populista dell’odio e dell’inimicizia.

Nuto Revelli insegna anzitutto due cose, fra tante altre, attraverso i suoi libri: a detestare il fascismo come sottocultura di ignoranza e a non dimenticare che la condizione dei “vinti” è purtroppo diffusa e molto comune nel mondo contemporaneo. Ognuno di noi potrebbe, per un sussulto della storia, ritrovarsi di colpo in un inferno di povertà, di sofferenza e di emarginazione. Ci vuole poco per scivolare lungo questa china pericolosa, e i libri di Nuto Revelli sono un monito costante a tenere alta la guardia nei confronti dell’ignoranza, brodo di coltura di tutte le forme di fascismo, razzismo e violenza di cui oggi abbiamo sotto gli occhi lo spettacolo indecente e fin troppo esplicito, in casa e fuori casa.

Nuto Revelli ha vissuto e raccontato attraverso i suoi libri il travaglio morale di una generazione cresciuta durante il ventennio fascista, in cui è proibito pensare e criticare e non resta che obbedire e rassegnarsi. Partito volontario come sottotenente degli alpini per la Russia nel luglio del 1942, Revelli assisté al crollo dell’ARMIR e partecipò alla disastrosa ritirata attraverso la steppa russa, maturando un odio profondo tanto verso il fascismo, di cui era stato convinto sostenitore in gioventù, quanto verso i tedeschi. Tornato in Italia visse anche le catastrofiche esperienze del 25 luglio e dell’8 settembre 1943, in cui la confusione e il doppiogiochismo di molti italiani lo convinsero a salire in montagna e organizzare il primo nucleo di resistenza armata contro i fascisti e l’invasore tedesco.

Durante i venti mesi della guerra partigiana Revelli comandò la IV Banda GL, poi ristrutturata nell’unità più grande di brigata “Carlo Rosselli”, che fino all’agosto del 1944 combatté sui monti del Cuneese fin quando, in seguito a un potente attacco tedesco, sconfinò in Francia per evitare di essere annientata. Qui Revelli visse una seconda fase della sua esperienza partigiana, venendo in contatto con gli eserciti alleati e con i sottili equilibri politici in cui la brigata fu coinvolta. Nel settembre del 1944, però, un grave incidente motociclistico quasi lo uccise, sfigurandolo e costringendolo ad un lungo periodo di degenza a Parigi, dive subì otto interventi chirurgici. Alla fine della guerra Revelli poté raggiungere di nuovo la brigata e partecipare agli scontri dell’aprile 1945 per la liberazione di Cuneo.

Finita la guerra, egli rinnovò la scelta di lotta attraverso la letteratura, trasmettendo e nutrendo la memoria degli eventi cui aveva preso parte, e soprattutto impegnandosi con tenacia a portare una testimonianza “dal basso”, come chiamò sempre la storia vera, della gente comune. Revelli scrisse della sua guerra e della sua Resistenza, allargando gradualmente il discorso all’esperienza degli altri, dei soldati semplici, dei contadini e dei montanari mandati a morire in Grecia e in Russia con la Divisione alpina “Cuneense” fra il 1941 e il 1943, entrando spesso in polemica con la storiografia ufficiale, soprattutto militare, per la quale il soldato contava sempre e solo come numero, come “massa” anonima.

Mai tardi (1946 e 1967), presenta uno dei ritratti più realistici e antiretorici della campagna di Russia. Soprattutto nella seconda parte, in cui è narrata la ritirata, la prosa scabra e dotata di una vibrante forza espressiva costituisce il più profondo e originario nucleo della sua scrittura. La lingua di Mai tardi nasce dall’ascolto della voce umana dei soldati, accoglie le espressioni e i gesti di ogni giorno, il dialetto, la corporeità, l’invettiva, il canto e la bestemmia, mentre non risparmia il sarcasmo alle forme vuote della retorica del regime e della cultura militarista.

La seconda prova, La guerra dei poveri (1962), articolata in forma di narrazione autobiografica e di diario, racconta in che modo l’autore passò dall’essere un giovane fascista negli anni Venti a partigiano dopo l’8 settembre, incentrandosi sulla crisi esistenziale e morale vissuta in quanto ufficiale di un esercito sconfitto.
Dopo il 1962 Revelli abbandona il registro autobiografico per dedicarsi invece a una ricerca di cui la guerra è ancora il tema centrale, ma trattato da una prospettiva diversa, cioè raccogliendo e divulgando l’esperienza degli altri, dei soldati semplici, di coloro che non hanno mai lasciato testimonianza scritta attraverso un diario o un libro. Ne La strada del davai (1966) e L’ultimo fronte (1971) il motivo centrale della scrittura e della sua intima tensione morale è il dialogo fra Revelli e il mondo contadino, che negli anni Cinquanta e Sessanta attraversa una crisi irreversibile.


Tale pratica ricerca raggiunge la sua massima compiutezza nei libri Il mondo dei vinti (1977) e L’anello forte (1985). Revelli si accostò a questo difficile campo della ricerca storico-sociale-antropologica, e al suo complicato groviglio di difficoltà metodologiche, etiche e linguistiche, da autodidatta, al di fuori di ogni istituzione accademica e di ricerca, dedicando il proprio tempo libero a raccogliere il materiale e a lavorarlo. La solidità e la coerenza dei risultati ottenuti sotto tutti i punti di vista sono quindi eccezionali.

Ne Il disperso di Marburg (1994) queste istanze letterarie e scientifiche definitivamente convergono: autobiografia, storia orale, storia tradizionale, ricerca e memorialistica si fondono in un diario che ripercorre le tracce di una ricerca storica in cui Revelli rivisita le sue certezze di ex-ufficiale, ex-partigiano e scrittore, attraverso la lente della riflessione etica e politica.

La piccola opera Il prete giusto (1998), racconta la “storia di vita” di don Raimondo Viale, prete ribelle e antifascista nato a Limone nel 1909 e morto nel 1983, il quale ispirò la propria moralità sul modello del messaggio evangelico votando la propria vita a testimoniare il sacrificio cristologico come valore morale per eccellenza.

Infine, Le due guerre (2003) è un’opera di ampio respiro in cui il racconto autobiografico della giovinezza di soldato e di partigiano è inserito in una cornice storiografica nella quale convergono a confronto le fonti scritte e le fonti orali raccolte nel corso degli anni.
Il 19 ottobre 1999, durante la cerimonia di conferimento della laurea honoris causa a Torino, Revelli chiuse il suo discorso con queste parole: “i giovani devono conoscere la società in cui vivono. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della ‘generazione del Littorio’. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza la libertà non si vive, si vegeta.”