La nuova caccia alle streghe

Virus e paranoia

Di Gianluca Cinelli
Illustrazione del supplizio di Giangiacomo Mora a Milano nel 1630, accusato di essere un untore, assassinato innocente

Sono celebri le pagine di Tucidide sulla peste di Atene del 430 a.C., e non meno lo sono quelle di Daniel Defoe sul contagio di Londra del 1665 e di Pietro Verri, poi riprese magistralmente da Alessandro Manzoni, sulla pestilenza di Milano del 1630. Si tratta di un archetipo radicato a fondo nella mente umana: il timore di un contagio che, invisibile e imprevedibile, ma soprattutto misterioso quanto all’origine, possa colpirci e minacciare le nostre vite, le nostre famiglie, la nostra società.

La reazione di paura è comprensibile, soprattutto davanti a un fenomeno, come quello delle pestilenze, che nella storia dell’umanità si verificava in tempi antichi con temibile frequenza circa trentennale. Ogni generazione, in un modo o in un altro, aveva la sua peste. Oggi questa minaccia, insieme con altre malattie letali o gravemente debilitanti (come il vaiolo, la poliomielite o la malaria) è stata espulsa dalla vita delle popolazioni che abitano la parte economicamente e tecnologicamente più avanzata del mondo. Restano tuttavia esposte vaste aree del pianeta e popolazioni più povere.

Il virus è una forma di vita che si innesta parassitariamente in un altro organismo, ne altera il DNA e si riproduce così usando lo stesso meccanismo della riproduzione cellulare del proprio ospite per proliferare, finché il vettore, sopraffatto dallo stato di disequilibrio causato dall’infezione, muore. Già questo è sufficiente a rendere terrificante l’idea del virus come un “ultracorpo”, che infatti è una presenza inquietante che popola numerosi racconti di fantascienza (la quale rappresenta molto spesso la grotta platonica sul cui fondo si proiettano le ombre dei nostri demoni e delle nostre paure paranoiche).

Il virus ha un’altra caratteristica che lo rende antipatico e temibile: si trasmette fra individui e, adattandosi a diverse forme di vita, si modifica geneticamente, rendendo così difficile la profilassi, perché ogni ceppo richiede un trattamento diverso. L’insidia rappresentata dal virus consiste nella sua capacità di sfuggire alle contromisure mediche, di fortificarsi, di nascondersi e di poter incubare in individui sani senza essere percepito.

A lungo il virus che ha maggiormente impensierito la società occidentale è stato l’HIV, diffuso perché connesso con pratiche sociali edonistiche, come il consumo di droga e la promiscuità sessuale. Al di fuori della società occidentale la virulenza di questa malattia è anche più grave, perché spesso si lega a pratiche di incesto e a superstizioni, come quella diffusa in alcuni paesi africani secondo la quale accoppiarsi con una vergine trasmetterebbe la malattia alla ragazza, liberando l’uomo.

Molto meno preoccupanti sono i virus informatici, quei programmi che derivano il nome proprio dall’organismo parassita perché si comportano come lui: entrano in un sistema operativo attraverso un vettore, si associano a un file di sistema e lo corrompono, alterandone la funzione e replicandosi, causando così un malfuzionamento nel sistema che arriva, come nel caso degli organismi biologici, alla completa perdita di equilibrio, al collasso, alla totale disfunzionalità.

Abbiamo tremato davanti a Ebola, guardando storto tutti quelli che venivano dall’Africa con la febbre. Abbiamo smesso di mangiare carne, per la gioia dei vegetariani, davanti alla diffusione del virus della “mucca pazza”. Abbiamo patito la SARS, la febbre dei polli e dei maiali, senza eccessivi isterismi. Certo, dei polli e dei maiali massacrati a milioni nessuno s’è dato troppa pena ma, tant’è, s’è detto: meglio loro che noi.

Poi venne il Corona. Come ogni altra cosa che oggi popola il nostro mondo ipocritamente occidentale, ci giunge dalla Cina, come gli elettrodomestici, i computer, le posate, le scarpe, gli occhiali… è un virus aggressivo, come il sistema economico cinese: si diffonde, si espande come una marea, penetra nei gangli del nostro sistema. E’ pericoloso e letale, come altri virus che abbiamo già affrontato, ma stavolta c’è qualcosa di diverso (davvero?) e di più. Alla profilassi si assomma il pregiudizio che strisciando fa vedere in ogni orientale (ché quanti di noi distinguono davvero un cinese da un coreano o da un vietnamita?) una minaccia, un untore, un infetto da scacciare. E sta accadendo. Si legge di cittadini cinesi costretti a scendere dal bus, di ristoranti cinesi deserti, di minacce ai gestori degli empori, quei famosi e mitici negozietti dove si va per trovare le cose più strane, utili e inutili. Mica smettiamo però di inondare i centri commerciali per comprare prodotti “made in China”, manco il virus viaggiasse nascosto a legioni nei ravioli al vapore come gli eroi greci nella panza del cavallo di Troia.

La paura ci rende etimologicamente mentecatti. Non ragioniamo, e quel che è peggio si innescano meccanismi cognitivi, emozionali perlopiù, di cui non siamo del tutto consci e padroni, che producono connessioni e analogie, le quali in un secondo momento si lasciano organizzare in forma di pensieri razionali secondo un meccanismo semplice e terribile: l’idea del contagio innesca la paura, la quale è alimentata dal fatto che questo contagio si propaga attraverso agenti invisibili e alieni, ai quali non diamo attenzione mai perché semplicemente non li percepiamo. Sì, è la nostra tradizione empirista che ci suggerisce che se una cosa non si percepisce coi sensi, essa non c’è. Finché non ci buschiamo il virus, allora l’ordine delle certezze va a farsi benedire e nel turbine della paura, dell’agitazione, nel tumulto dell’incredulità facciamo un’ulteriore associazione involontaria che però ci piace, perché soddisfa il desiderio di dare un volto al nemico: e stavolta il virus ha un volto ben preciso, con gli occhi a mandorla. Parla mandarino ed è dappertutto, perché si sa che i cinesi sono tanti. Le nostre città brulicano di cinesi, i quali però non si mescolano con noi, stanno sempre tra di loro, chissà dove abitano, chissà chi dà loro i soldi per aprire tutti quei negozi dove non entra mai nessuno… certo, sono la copertura per i laboratori segreti dove segregano i bambini a lavorare come schiavi in sartoria, nelle cantine. C’è la mafia, come no. E i ristoranti? Chi presta loro i soldi per le licenze? E poi, ammettiamolo, che ne sappiamo di quello che succede nelle cucine? Insetti, topi, scarafaggi… e quel cibo tutto uguale che viaggia per settimane nei container? Puah! Era solo questione di tempo, prima che questa cosa esplodesse, che la loro presenza infestante si manifestasse nell’aria, nell’acqua che beviamo. Sono loro il virus. Il pericolo giallo, la nuova peste che ci avvelena tutti. Invisibili e subdoli proprio come il virus, li abbiamo covati a lungo, si sono incubati nelle nostre vite, aspettando pazienti…

Davvero tutto ciò è cosa nuova? Non direi. Leggiamo i resoconti di Verri e di Manzoni sulla follia collettiva che seguì il contagio pestilenziale nella Milano del 1630. La caccia alle streghe, o meglio agli untori, era in tutto e per tutto uguale a quella che si sta scatenando oggi. Gli invisibili, gli outsider, gli stranieri e le facce poco note nel vicinato diventano in un istante untori. Il virus più aggressivo, come si vede, non è quello che da fuori entra in noi, ma quello che da dentro la nostra testa aggredisce i pensieri e li contamina, per poi usare questi come vettori di contagio e raggiungere le menti altrui, e diffondersi. Il contagio della paura e della follia, poi della violenza e del male è come un’onda di ritorno che sovrasta di molto e più a lungo quella del virus biologico. Infatti la malattia si estingue, in un modo o in un altro, e nessuno potrà mai dimostrare che l’azione o la volontà umana abbiano alcun potere sulla nascita e morte di un virus (siamo un po’ presuntuosetti). Ma il virus della paura è tutto umano e perdura, s’annida, anche dopo la fine della crisi rimane quiescente e aspetta con pazienza il prossimo contagio per tornare a diffondersi in parole e atti di violenza e crudeltà. Dopo la fine della peste di Milano, nel 1630, la vita dei superstiti tornò alla normalità, ma non si può dire lo stesso della vita dei poveretti su cui la legge aveva messo le mani, i quali continuarono a essere torturati e interrogati ancora per tutto il 1631, in cerca di un crimine che non esisteva ed era impossibile, inventato dalla testa dei giudici e ispirato da quella del popolino terrorizzato. A chi tocca stavolta?

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