Per i lettori di DiscorsivaMente pubblico qui in anteprima un frammento del mio ultimo racconto

Jackson respirò l’aria torrida del deserto e seppe di essere di nuovo solo. Era arrivato fino ad Albuquerque su un Greyhound e di lì aveva proseguito fino a Gallup e oltre, finché l’ultimo bus l’aveva scaricato nel mezzo del nulla su un crocicchio tra i campi. Nessuno poteva rintracciarlo adesso.
Si guardò intorno come un naufrago. Continuava a ripetersi in mente le parole «non c’è niente di buono nello strisciare indietro, è avanti che devi andare». Qualcuno doveva avergliele dette pochi giorni prima, ma non ricordava chi. Sapeva soltanto che era tornato ad abitare per un po’ con i suoi, nella loro grande casa in montagna, dopo che era tornato dalla missione all’estero. Quei giorni trascorsi lassù con loro, però, gli pareva che andassero alla deriva e i ricordi sbiadivano. Era successo qualcosa di terribile là sulle montagne, ma non poteva ricordare che cosa, se non in immagini smozzicate, come un brutto sogno. C’era una casupola squallida, su un sentiero battuto appena fuori del bosco, e qualcuno urlava delle minacce incomprensibili, mentre un grosso cane abbaiava e scuoteva la catena che lo legava al palo. Chi era quell’uomo? Dov’era quella casa? Jackson provava paura e un furore cieco, quando questi ricordi gli ritornavano alla mente. Erano gli ultimi che aveva del breve tempo trascorso in montagna dai suoi, poi il buio.
Il sole tramontava, era tempo di incamminarsi verso ovest. La terra era arida e rocciosa, le colline basse colline sembravano onde di un mare pietrificato, sopra il quale una coppia di avvoltoi planava nel cielo vuoto. Era proprio come in Afghanistan, dove tante volte aveva guardato un cielo identico a questo e aveva pensato a casa. Ma dov’era ormai casa, non lo sapeva più.
Nel crepuscolo il deserto appariva magnifico e desolato. La strada era vuota e il calore del giorno la faceva tremolare come se l’asfalto liquefatto ribollisse. La sera però si rinfrescava rapidamente e si alzò una brezza leggera. Ogni traccia di vegetazione era scomparsa e restavano in vista soltanto le rocce rosse, abbrustolite dal sole. Pochi minuti dopo il tramonto Jackson udì il suono di un motore distante e si voltò con un fremito di timore. Un vecchio furgone color carota arrancava nella distanza vuota del deserto. Le luci brillavano quasi irreali nel crepuscolo violaceo. Quando fu a pochi metri da lui, il veicolo s’arrestò. L’autista indossava un cappello e sembrava piuttosto corpulento, ma il volto restava invisibile nel buio dell’abitacolo. Jackson s’avvicinò e guardò dentro dal lato del passeggero:
«Vuoi un passaggio?», chiese il guidatore in una voce calda e roca, come il deserto.
«Sicuro.»
«E dove vai?»
Jackson non seppe rispondere, perché non ne aveva idea. Non trovava nessuna parola capace di dire il posto dov’era diretto, così si limitò ad alzare le spalle e indicò verso ovest.
«Salta su», gli disse l’altro e gli offrì una sigaretta. Alla luce della fiamma la faccia dell’autista sembrava di terracotta, squadrata e segnata da rughe profonde.
«Fin dove puoi portarmi?»
«Mi fermo a Yahtahey.»
Jackson non l’aveva mai sentito questo posto, ma non se ne fece un problema. Per lui non era che un’altra tappa del viaggio.
Il guidatore era taciturno e respirava pesantemente. Il furgone era vecchio e puzzava di gasolio e tabacco. Jackson chiuse gli occhi nella notte che scendeva e la sua mente si perse. Il brontolio monotono del vecchio motore, i sobbalzi sulle buche e l’odore secco del deserto che si raffreddava lo riportavano indietro, laggiù. Dopo pochi minuti sentì quella strozzatura nello stomaco, che sempre provava in Afghanistan quando gli passava per la testa di ritornare a casa. Si svegliò e vide le stelle luccicanti nel cielo nero. Il furgone attraversava la notte ed era come galleggiare in mezzo alle stelle. Jackson si toccò l’anca destra per assicurarsi che la pistola fosse sempre lì, perché la provincia di Herat era insidiosa dopo il tramonto.
«Mio Dio», disse vedendo tutto quel buio, «ma da quanto siamo fuori di pattuglia? Perché non mi hai svegliato? Dovremmo già essere rientrati alla base.»
Il guidatore lo guardò un paio di volte prima di rispondere: «Sei nel Nuovo Messico, soldato. Dormivi. E hai parlato.»
Jackson tornò alla realtà. Non stava viaggiano sullo Hummer e l’uomo seduto accanto a lui al volante non era Franklin. Sentì qualcosa rotolare giù pesantemente dentro il petto. Franklin, il suo caro e solo amico. Franklin, che lui aveva fatto morire per non aver detto che c’era un ragazzino con un lanciarazzi puntato contro di loro. Lo vedeva ancora, di notte nei suoi incubi, quel ragazzino straccione, vedeva il tubo verde sulla spalla esile, e il razzo che partiva lasciandosi dietro una scia di fumo bianco. Allora saltava sul letto, svegliandosi un attimo prima dell’esplosione. Ogni notte era la stessa storia da mesi. Il deserto aveva inghiottito Franklin. Jackson non avrebbe potuto perdonarsi per quel che aveva fatto, né lo avrebbe fatto l’Esercito. Neanche Franklin lo aveva perdonato, perciò Jackson continuava a fuggire.
«Ascolta», disse con calma il guidatore. «Dove andiamo non ci sono alberghi. La mia donna non ti lascerebbe entrare, se ti portassi da me. Ti scarico alla pompa di benzina. Potrai restare lì per la notte, nel retro del mio ufficio. Troverai qualcosa da mangiare e da bere sugli scaffali del negozio.»
«Grazie, amico, davvero», rispose Jackson. Era strano, adesso era un vagabondo e aveva bisogno degli altri per ogni cosa. Proprio lui, che non aveva mai chiesto niente a nessuno, che aveva sempre vegliato sul sonno dei suoi concittadini, che aveva sacrificato il proprio tempo migliore per loro. O questo era almeno quello che pensava quando era laggiù, all’estero. Ad ogni modo era successo tanto tempo prima, in un’altra vita. Adesso sedeva sul fondo e guardava quella strana corda che gli pendeva sopra, incerto su cosa dovesse farci. Quando finalmente raggiunsero Yahtahey erano le dieci e le strade erano deserte.
«Cerca di dormire un po’», gli disse l’uomo quando accostò davanti al rifornitore. «Domattina farai meglio a partire presto. Poche miglia più a nord c’è la strada per l’ovest. Troverai un passaggio lì. Che Dio ti benedica.»
Si separarono senza dire altro e la notte inghiottì il furgone.
Quella notte Jackson sognò di nuovo l’attacco, però stavolta fu diverso. Di colpo il deserto cambiò aspetto e si mutò in un paesaggio di montagne boscose sotto un cielo tempestoso, con gli alberi che oscillavano nel vento feroce. Jackson era da solo davanti a una casupola miserabile e c’era un uomo che gli urlava contro, lo ingiuriava e lo minacciava con una zappa. Un enorme cane nero incatenato a un palo abbaiava furiosamente, pronto a fare a pezzi Jackson, che nel sogno guardava la scena con un senso di impotenza e di orrore. Poi di colpo apparve Franklin, indossava ancora la mimetica. Gli fece un cenno e si trasformò in un tornado che spazzò via la casa, l’uomo e il cane.
Jackson aprì gli occhi impaurito. Il sudore gli copriva il volto e gli faceva male la schiena. La stanza, piccolissima, era incasinata come se lui avesse scalciato nel sonno. Strisciò giù dal divanetto consunto su cui aveva dormito e uscì fuori nell’aria fredda del primo mattino. Il cielo a est cominciava appena a impallidire. Respirò profondamente e si calmò, mentre la mattina scacciava gli ultimi spettri della notte.
Il resto del racconto può essere letto sulla rivista Fermenti, n. 250, a. 50 (2020), pp. 289-299
Molto bello questo racconto 😊
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Grazie. Questo è solo l’inizio della storia…
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