Consigli di lettura: “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati (1940)

di Gianluca Cinelli

Nel 1940 l’Europa era in guerra già da mesi. La Polonia, i Paesi Bassi e molte città inglesi erano state già devastate dai bombardamenti e presto anche la Francia sarebbe crollata sotto i colpi del Blietzkrieg tedesco. L’Italia, legata alla Germania dall’infelice Patto d’Acciaio ratificato tra Mussolini e Hitler alla fine degli anni Trenta, rimase a guardare fino al 10 giugno 1940. I mesi di neutralità, tuttavia, sapevano di guerra anche nella penisola e tutti erano consapevoli che presto o tardi l’intervento italiano sarebbe stato inevitabile.

Il deserto dei Tartari esce proprio nel 1940, mentre i francesi affrontano la cosiddetta drôle de guerre, aspettando i tedeschi sulla “imprendibile” Linea Maginot, che invece si sciolse in pochi giorni come neve al sole, quando le truppe corazzate di Hitler la aggirarono attraversando il Belgio neutrale. Non diversamente, in Italia si costruivano già fin dagli anni Trenta i poderosi forti del cosiddetto Vallo del Littorio, sulle Alpi occidentali, come baluardo di difesa eretto contro il possibile attacco nemico.

Le parole più forti e vere per descrivere quell’impresa tanto inutile quanto grottesca, le spese Nuto Revelli nel libro L’ultimo fronte (1971): “non una sola opera di fortificazione è efficiente, abitabile” (p. xxix). Costruiti per preparare una guerra “offensiva”, i fortini sono inabitabili, bastano poche raffiche di mitraglia per avvelenare l’aria e stordire gli armieri (p. xxx), e la pioggia li trasforma in “tombe di cemento, in rozze caverne piene d’acqua” (p. xxix), in cui i soldati devono “improvvisare, arrangiarsi” (xxix), finché in autunno la neve torna a rendere “impraticabile la montagna e finalmente inviolabile la nostra frontiera” (p. xxx).

La parodia degli “eroici furori” dei fascisti, che progettano la guerra offensiva costruendo fortini, rivela qualcosa dello spirito incerto e dello scarso senso di realtà con il quale in Italia ci si preparava per il conflitto. Lo stato maggiore del regio esercito era formato ancora da ufficiali della prima guerra mondiale, che avevano vissuto la guerra di posizione e che insegnavano all’Accademia Militare di Modena (la fonte è ancora Nuto Revelli, dai suoi libri La guerra dei poveri del 1962e Le due guerre del 2003) che le armi italiane erano le migliori, benché il fucile in dotazione alla fanteria fosse del 1891, le mitragliatrici Breda si inceppassero spesso, le bombe a mano non esplodessero e i carri armati fossero così scarsi che anche gli allievi carristi non li vedevano che nei disegni tecnici. Privi di divisioni corazzate e di unità autotrasportate, di lì a breve gli italiani si sarebbero ritrovati a fare guerra di trincea nel deserto del Sahara, mentre i desert rats di Montgomery e l’Afrika Korp di Rommel si inseguivano nel deserto per centinaia di chilometri; o a marciare nella steppa russa per migliaia di chilometri a piedi, senza camion ma con i muli, come l’esercito di Napoleone.

Buzzati racconta a suo modo uno scenario simile con la storia del giovane tenente di prima nomina Giovanni Drogo che, uscito dall’accademia militare, viene assegnato alla guarnigione della Fortezza Bastianini, arroccata sui monti che guardano a nord, parte di un poderoso sistema di forti e casematte costruito per difendere i confini. Oltre quella linea si estende un grande deserto bianco, dove le leggende vogliono che transitassero i Tartari molti anni prima, portando guerra e rapina. Drogo è giovane, ha tutta la vita davanti e ha scelto la carriera militare, diversamente dai suoi fratelli. La divisa, i riti, il mantello di stoffa fine, tutto questo apparato simbolico sembra appartenere a un’altra epoca. Infatti il libro di Buzzati cresce sotto una luce volutamente ambigua: da un lato parla di cose presenti al lettore del 1940, dall’altro evoca luoghi immaginari e li colloca in un tempo apparentemente distante. L’anacronismo è uno dei tratti specifici di questo libro affascinante, insieme con il senso di spaesamento e l’atmosfera tesa, nonostante la quasi totale assenza di azione.

Drogo dovrebbe trascorrere due anni alla fortezza, ma gli viene fatto capire che se volesse potrebbe andarsene già dopo quattro mesi. Eppure qualcosa lassù lo ammalia e, insieme con un puntiglioso senso del dovere, lo convince a restare ancora. Il deserto vuoto è magnetico, i suoi fantasmi invisibili esercitano un fascino oscuro su Drogo e su altri ufficiali che nella fortezza stanno sciupando il tempo migliore della vita. Basta un minimo indizio di movimento all’estremo confine settentrionale, dove il deserto svanisce nelle nebbie perenni, per riaccendere in un istante la speranza che la guerra verrà davvero, che la fortezza si mostrerà degna della sua fama, che la gloria che tutti attendono sarà finalmente distribuita. Ma ogni volta la speranza sfuma e lascia il posto a una crescente amarezza, corrispondente a un graduale distacco dalla vita, che intanto scorre e dissipa gli anni.

Drogo invecchia nella fortezza finché comprende, durante una breve licenza, che ha perduto l’opportunità per farsi trasferire nel momento in cui viene ridotto l’organico. I suoi colleghi gliel’hanno tenuto nascosto per prendere il suo posto. E lassù, tagliato fuori da tutto, lontano dalla famiglia, aspetta il suo momento. Ma quando questo arriva, perché dal nord hanno costruito una strada nel deserto e finalmente scendono i reggimenti verso il confine, Drogo è ormai malato e stanco, perciò viene congedato dalla fortezza e spedito in città, dove non arriverà mai, perché muore da solo in una locanda lungo la via.

Il deserto dei Tartari è un romanzo modernista che parla di un’occasione di provarsi (tema caro a Joseph Conrad e al suo estimatore Primo Levi), che tuttavia non si manifesta mai per il protagonista, la cui vita sfuma nell’immobilità. In modo paradossale, infatti, questa occasione mancata è la vita stessa. Drogo sciupa interamente il suo tempo, le sue capacità che non ha mai avuto modo di provare, la giovinezza, la maturità, in nome di una speranza che è anche un’ossessione. Nell’Italia del 1940, dominata dal delirio guerrafondaio del dittatore che prometteva “un posto al sole” e una sedia al tavolo della pace per rendere l’Italia imperiale più forte e più grande, il libro di Buzzati dové subito apparire singolare. Non si parla di politica, l’intera vicenda di Drogo è trattata in termini esistenziali e intimistici, anche con una certa insistenza sul motivo della perdita della gioventù.

Eppure la triste vicenda dell’ufficiale che rimane vittima delle proprie illusioni rappresenta un richiamo della condizione che molti giovani ufficiali (e le loro famiglie) condividevano. Animati da sentimenti patriottici, senza rendersi conto dell’anacronismo con cui ci si preparava alla guerra (gli “otto milioni di baionette” che Mussolini prometteva contro il nemico), alcuni di quegli ufficiali attendevano la guerra come la grande occasione della vita. Molti di loro appresero amaramente sul campo l’inganno di cui erano rimasti vittime, quando ormai era troppo tardi, sui monti dell’Albania, nelle sabbie di El Alamein, o sperduti nella steppa russa.

Rileggere oggi questo libro ha un che di istruttivo. Da un lato sembra di immergersi in un tempo lontanissimo, in cui gli uomini facevano e pensavano cose per noi quasi incomprensibili. Da un altro lato, complici lo stile e la lingua di Buzzati, che appare più moderno e resistente al tempo di tanti altri scrittori del suo tempo, la storia offre momenti di intima commozione perché in fondo il dramma di Drogo non è sconosciuto a nessuna epoca. Chiunque, in qualsiasi tempo e circostanza, può accanirsi nel perseverare in qualcosa che vede come un obbligo morale o professionale, in uno scopo da perseguire fino in fondo sperando che domani possa succedere l’impossibile e che lo stato mediocre e squallido di immobilità possa risolversi come per magia. E molti, vivendo così per lunghi anni, si accorgono di avere sciupato il tempo e le energie migliori solo quando è ormai troppo tardi, e non c’è più il tempo né il contesto per avere una seconda occasione. Un libro angosciante sul tempo che scorre, sull’impermanenza e sulla futilità delle ambizioni, quando queste si dissolvono all’urto con la banalità dell’esistenza quotidiana. Un memento mori? Piuttosto il contrario direi, un invito a vivere il proprio tempo e l’unica vita che abbiamo, senza indugiare nel corteggiamento di fantasmi vani, per null’altra ragione che potrebbero un giorno rivelarsi reali.

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