Lockdown, e la storia si ripete

© Alessandro Cinelli

Di nuovo la soluzione praticabile per il governo è quella impraticabile per la nazione, a un anno dal primo catastrofico lockdown imposto dal governo allora in carica. Allora si poteva dire che eravamo stati colti di sorpresa. Ma oggi? Peraltro i numeri sulla base dei quali si impone la zona rossa non sono né resi pubblici interamente, né attendibili né aggiornati. Arbitrio. Il virus è diffuso, è vero, ma nessuna azione politica è diretta a ridistribuire i soldi pubblici per rafforzare sanità, scuola, trasporti, ammortizzatori sociali. Politici, dirigenti e consulenti ministeriali continuano a incassare stipendi da capogiro, si parla di miliardi per sostenere le aziende in crisi, ma non bastano e molti imprenditori non vedranno che una porzione ridicolmente ridotta di quel denaro. In tutto ciò, i cittadini sono confinati a casa, come se fosse colpa loro se il virus circola, e perciò vengono privati della libertà. I vaccini, si ripete, sono l’unica via d’uscita dal problema, ed è giusto. Perché allora in Italia si inietta quello meno efficace in gran numero, invece di garantire a tutti un vaccino più potente? Perché costa di meno, ovvio. Perché i soldi pubblici in Italia non sono a disposizione della comunità. Perché bisogna sempre accontentarsi del meno peggio, arrangiarsi, e questa è una tradizione triste e ridicola che la storia ci porrebbe sotto gli occhi, se solo volessimo leggere di più e coltivare un po’ di pensiero autonomo e critico.

Facciamo un salto indietro, in un contesto apparentemente diverso, quello della seconda guerra mondiale. Per mesi, nel corso del 2020, le cronache di regime hanno sostenuto la liceità del lockdown proprio ripetendo con ipnotica insistenza che eravamo in guerra contro il virus (cosa falsa, come sostengono diversi autori). Adesso, con ironia, facciamo lo stesso gioco: parliamo di guerra per riflettere sul modo in cui si affronta oggi il problema del virus. Ma rovesciamo la prospettiva, e ricordiamoci come in Italia abbiamo affrontato una guerra, quando ci siamo trovati a farlo.

Durante la seconda guerra mondiale gli italiani furono chiamati a partecipare alla “grande” impresa di rendere l’Italia una gloriosa potenza imperiale. Il motto era “credere, obbedire, combattere”, senza discussione. Lo strumento era la propaganda più becera e ridicola, fondata su falsità che solo con l’esperienza diretta sarebbero state smascherate, cioè attraverso una serie di sconfitte militari. Si diceva che le armi italiane fossero le migliori, ed era falso. Le mitragliatrici Breda s’inceppavano e avevano meccanismi delicati e complessi che richiedevano costante cura e pulizia. Al fronte, che non è il museo, tenere un’arma pulita perché sia efficiente può essere ben difficile. Le bombe a mano erano ironicamente chiamate “umanitarie” da quelli che dovevano usarle, perché scoppiavano con fracasso ma con scarso effetto scheggiante. E nella neve affondavano senza esplodere. Leggiamo i libri di Mario Rigoni Stern, di Nuto Revelli, di Cristoforo Moscioni Negri, solo per citarne alcuni. Si diceva “armiamoci e partite”, perché i poveracci reclutati nelle campagne andavano al fronte, mentre gli imboscati, i Federali, i figli di papà restavano a casa. Si diceva che avremmo “spezzato le reni alla Grecia”, ma la campagna militare fallì. Si diceva che avremmo partecipato alla “crociata antibolscevica” in Russia al fianco delle truppe naziste, con “corpi autotrasportabili”, cioè con i fanti appiedati che però avrebbero saputo viaggiare sui camion tedeschi, qualora questi ce li avessero prestati. I soldati italiani andavano in guerra con la divisa di lana autarchica, che sotto la pioggia si sfaldava, e con scarpe di cuoio e cartone, che con l’acqua e il gelo si sfasciavano. E con un fucile del 1891. L’Italia di allora mandava a morire la gente con la testa gonfia di fandonie, ma senza approntare gli strumenti per proteggere e sostenere i cittadini. Certo, perché il cittadino in Italia deve sempre dare, con patriottico senso del dovere e del sacrificio. E ringraziare se ogni tanto arrivano i contentini, come le “mele del Duce”, con le quali le infermiere accolsero nella primavera del 1943 i resti derelitti dell’ARMIR, dopo 2500 chilometri di ritirata a piedi nell’inverno russo.

456.000 persone hanno perso il lavoro nel 2020. Possibile che il lockdown sia la soluzione al problema? I “ristori”, parola che sa tanto di “mele del Duce”, basteranno a rimettere in piedi i moribondi? Ma il senso della realtà esiste ancora nella mente e nelle coscienze delle persone che governano il paese, o queste sono troppo lontane dal mondo dell’uomo comune per capire e risolvere i suoi problemi? Facciamo come lo struzzo, mettiamo la testa sotto la sabbia per non vedere il pericolo, e non pensiamo che dietro (e dentro) la televisione c’è un mondo che va in rovina.

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.