Conferenza presentata nel progetto Fronte del Don il 3 giugno 2022

La sconfitta militare dell’ARMIR, con la conseguente ritirata dal Don e per circa 80.000 militari italiani la cattura da parte dell’Armata Rossa, rappresentarono un trauma profondo e duraturo tanto per i protagonisti di quelle esperienze quanto per l’intera comunità nazionale. Malgrado i tentativi fatti dall’esercito e dal regime per tenere nascosta la gravità del disastro militare in Russia, nei mesi successivi al rimpatrio dei superstiti dell’ARMIR la voce si sparse attraverso il paese, indebolendo ancor più il consenso al fascismo e alla guerra. Tuttavia, perché la vicenda della disfatta in Russia iniziasse ad essere narrata pubblicamente si dové attendere la fine della guerra, quando uscirono le prime memorie di militari sopravvissuti al disastro e iniziò il dibattito politico sui prigionieri trattenuti dai sovietici. Diverse interrogazioni parlamentari e inchieste giornalistiche portarono il problema dei prigionieri all’attenzione del pubblico in anni in cui uscivano intanto numerosi libri autobiografici, diari e memorie di ufficiali che avevano combattuto in Russia nel 1942-1943. La polemica divampò fra coloro che cercavano di difendere l’operato dell’esercito (e spesso il proprio, in qualità di ufficiali di comando, come Messe) e i reduci che invece accusavano lo stato maggiore dell’esercito e il fascismo (nonché i tedeschi) di aver mandato al massacro oltre 200.000 uomini in modo scellerato. Fra questi, una voce autorevole fu quella di Nuto Revelli, al quale si aggiunsero in seguito reduci come Cristoforo Moscioni Negri, Mario Rigoni Stern, Giusto Tolloy e altri ancora. In parlamento, invece, le forze conservatrici dominate dalla Democrazia Cristiana sostenevano che decine di migliaia di prigionieri fossero trattenuti come ostaggi nei gulag di Stalin e che solo una vittoria della DC avrebbe garantito il loro ritorno in patria. I prigionieri sopravvissuti, circa 10.000, tornarono tra il 1946 e il 1954 e alcuni di loro pubblicarono memorie e testimonianze dell’esperienza durissima della prigionia. Tuttavia, anche fra questi reduci non mancarono le polemiche, poiché alcuni di essi avevano partecipato alla campagna di rieducazione politica antifascista durante la prigionia, come Fidia Gambetti e il leggendario capitano del battaglione Cervino Giuseppe Lamberti. Al contrario, altri come don Giovanni Brevi, don Pietro Alagiani, Alberto Massa Gallucci e Enrico Reginato, gli ultimi quattro prigionieri a rientrare, si presentarono come sostenitori del più veemente anticomunismo, ricevendo onori e sostegno dagli ambienti politici conservatori. In tale panorama diviso, il trauma della sconfitta, dei lutti e delle sofferenze patite rimaneva irrisolto. Per alcuni autori la scrittura rappresentò un possibile mezzo di elaborazione, come nel caso di Rigoni Stern, per altri fu invece l’impegno attivo in politica e in società a fornire un appiglio per superare il trauma, come nel caso di Nuto Revelli. Sul piano della narrazione pubblica, invece, la tendenza generale delle istituzioni consisté nel nascondere le responsabilità della sconfitta, nel minimizzare sugli effetti postumi della prigionia sui reduci, e nel sostenere la retorica dell’armata alpina “invitta” in Russia. Presentando alcuni casi emblematici, sarà ricostruito e discusso il modo in cui il trauma della disfatta militare in Russia fu elaborato nei primi venticinque anni della Repubblica sul piano individuale e collettivo.