Dentro la scrittura: antologia personale

Da Fantasmi in Val d’Orcia (2012)

Mi guardo nello specchio, attendo un cenno, un invito, qualcosa. Se provo a raccontarmi, non sono le storie a far difetto, ma la voce viene meno. E quando nel silenzio di questa solitudine le parole incominciano a formare frasi, e la mia voce pronuncia i nomi e i luoghi della mia vicenda, m’interrompo e chiedo forte: “chi parla?” Non è il parlare coi morti e dei morti a turbarmi, no. È la loro voce. La sua. Mi toglie la parola, mi provoca con le sue continue recriminazioni, mi ingiuria, poi piange e mi implora di non lasciarlo nell’oblio, dalle lacrime passa poi alla più sguaiata delle risate e mi guarda di sotto in su, e mi dice che non c’è pace nel silenzio. Mi fissa negli occhi e mi ripete che senza di lui non sono niente, a malapena un nome su un documento falso, un fantasma, un rumore di fondo. “E tu allora?”, ringhio allo specchio, “che cosa saresti tu senza di me?”, e quello si ritrae maledicendomi. Ci odiamo e questa nostra reciproca dipendenza non fa che accrescere la nostra rabbia. Se gli altri sapessero, mi disprezzerebbero, mi additerebbero come un mostro. Ma che cosa sapranno di me, finché continueranno a ignorare lui? Niente. Lui rinnova la sua maledizione ogni giorno dal quadrato dello specchio. Io la fisserò nella carta, e quando me ne sarò andato saremo finalmente pari davanti alla morte. Sulle pagine saremo finalmente qualcosa di completo.

[…]

Partimmo in tre con Murrad e Youri. L’azione era pianificata nel dettaglio. Confidavamo che quelli, forti della conoscenza del territorio, si sarebbero lanciati al mio inseguimento senza esitazione. Così, studiando il terreno attorno alla cascina alcuni giorni prima dell’azione, decidemmo che mi sarei fatto inseguire in un boschetto non troppo intricato, il quale però terminava davanti a un salto ripidissimo di almeno sei metri, una trappola perfetta. I partigiani mi avrebbero inseguito fin dove Youri e Murrad li aspettavano. Roderick ci lasciò sulla strada che da Pienza va verso Montepulciano, di lì ci infilammo in un vallone invaso dalla boscaglia e procedemmo verso nordest. Quando fummo in vista della casa, ci dividemmo, Youri e Murrad andarono ad appostarsi nel boschetto e attendemmo il tramonto. Se l’operazione procedeva in maniera eccellente, il mio piano era perfetto. Una volta che Youri e Murrad avessero fatto fuori i miei inseguitori, io avrei ucciso loro due, e tornato all’appuntamento con Roderick, l’avrei costretto a consegnarmi le armi, i vestiti e il mezzo, con il quale avrei proseguito oltre Montepulciano, verso l’Appennino. Quando la luce incominciò a declinare, mi feci coraggio, controllai ancora una volta la pistola e mi avviai verso la casa, camminando sulla strada principale perché mi vedessero bene. Bussai con forza alla porta della cascina e sentii rumore di sedie smosse, passi, una voce di donna dietro la porta.“Chi è?”“Aprite, per favore, aprite, sono un disertore. Se mi trovano mi fucilano, aprite!”I passi tornarono indietro, la voce si confuse con quella di un uomo, poi altri passi, il chiavistello, la luce debole di una lampada a petrolio e il volto rugoso di un vecchio mi squadrò. La cosa funzionava, il vecchio non mi avrebbe fatto entrare, e intanto i quattro partigiani avrebbero cercato di accerchiarmi approfittando del buio che scendeva. Mi pareva quasi di sentirli muoversi nelle ombre delle piante.“Sei un disertore?”, mi chiese il vecchio.“Sì, sono scappato dalla colonna che andava verso Chianciano.”“Quando?”“Non lo so, due, tre ore fa. Eravamo quasi a Sant’Albino. Io stavo in coda alla colonna, e quando ho potuto, su una curva, mi so’ buttato nella macchia.”“E come ci sei arrivato qua?”“Che ne so, ho girato fuori da Montepulciano, nei boschi, mi sono perso.”Il vecchio mi guardava, non credeva a una sola parola di quel che dicevo. Forse stava domandandosi chi era l’infame che l’aveva venduto e per quanto. Non sapevo quando i fascisti avessero visitato questa cascina per l’ultima volta. Le mie mostrine erano del Comando Provinciale 644 e con ogni probabilità lo stesso gruppo aveva rastrellato e pattugliato queste campagne numerose volte, perciò quell’uomo mi odiava senza nascondermelo. Gli leggevo negli occhi una sola domanda: “perché dovrei aprirti la porta e accoglierti in casa mia, invece di lasciarti là fuori a morire come un cane?” Di colpo mi accorsi che stava accadendo qualcosa che non avevo previsto. Avevo paura. Una paura folle, più forte della Katiuscia e del rombo dei carri armati sovietici, di quella che mi assalì mentre i militi mi sfiguravano. Non avevo paura dei partigiani che mi accerchiavano, ero armato e avrei potuto battermi. E non avevo nemmeno paura di quel che Misha avrebbe potuto dire o fare al mio ritorno, se la missione fosse fallita. A immobilizzarmi lì sul posto, con un rovo attorcigliato nella gola, era la divisa che indossavo. “Non così, non con questa…” imploravo fra me, e incominciai a indietreggiare, il vecchio vide la mia espressione e parve spaurirsi anche lui, tirandosi indietro e portando via con sé quel flebile raggio di luce che teneva nella mano dentro la stanza. Un tonfo e fu buio, il fruscio dalla sinistra e lo scatto dell’otturatore mi risvegliarono e in un balzo mi tirai via dalla traiettoria delle pallottole, che andarono a perdersi fra i rami. Scappai nonostante zoppicassi vistosamente per la lesione dell’anca, e stando attento a non perdere la via sentivo che i miei inseguitori si allargavano verso sinistra e sparavano da meno di dieci metri. Il piano stava funzionando, iniziavano a seguirmi proprio dove volevo io, e con la protezione del buio e un po’ di fortuna li avrei condotti nella nostra trappola. Ancora qualche balzo e mi fermai un momento, sparando a casaccio dove sentivo correre nella boscaglia. Sentii un grido, rami rotti, un tonfo, poi richiami di aiuto e le imprecazioni contro di me seguite da una lunga raffica che mi passò alta sulla testa. Avevo compromesso l’azione, perché l’inseguimento si interruppe e i partigiani rimanenti incominciarono a cercare il ferito. Cambiato il caricatore, sparai altri colpi nel buio, sperando che quelli tornassero a farsi vivi, ma niente. Era come se si fossero dileguati nella notte lasciandomi solo fra gli alberi. E mi prese di nuovo una paura gravida di presentimenti. Ero stato nell’oscurità vuota e paurosa della steppa, ed ero stato da solo, dimenticato da tutti, nei boschi dell’Amiata, e non mi avevano sgomentato quanto questo silenzio. Youri e Murrad dovevano aver sentito gli spari e le grida, dovevano aver capito che l’inseguimento era rotto, e forse avrei dovuto raggiungerli e tornare indietro con loro a cercare i partigiani per completare quel che avevo iniziato. Youri e Murrad. Li sapevo nascosti dietro un roccia o un tronco, immaginavo i loro occhi spalancati a frugare l’ombra e il loro respiro lento. E se si fossero sbagliati e non mi avessero riconosciuto? Avrebbero potuto spararmi addosso. E se non fosse stato un sbaglio? Uno scontro nella notte, un partigiano ferito e un milite ammazzato e lasciato nella boscaglia agli animali, che se ne nutrissero, niente di nuovo. Il terrore di essere preso alle spalle dai miei compagni mi rese furibondo e mi ribellai a quello che mi pareva un destino ridicolo. Non sarei morto quella notte, non in quel boschetto e non con quella divisa addosso. Strisciando mi spostai su una posizione defilata, poi da lì, costeggiando il basso dirupo, iniziai l’avvicinamento per prendere alle spalle uno dei due. Percorsi il dirupo per tutta la sua lunghezza, e gli occhi abituati ormai all’oscurità ne vedevano rilucere il fondo argilloso come un fantasma pallido. Ma di Youri e di Murrad nemmeno l’ombra. Alla rabbia subentrò un odio cieco. Mi avevano giocato, abbandonandomi nel bosco, certi che i partigiani mi avrebbero raggiunto e ammazzato come un cane. E così, pensai, se Misha non aveva sospettato di me per il tradimento di Bruno e Andrea, s’era pur sempre sbarazzato di un fastidioso rivale. E credeva di averlo fatto senza sporcarsi le mani. Giurai a me stesso che non avrei abbandonato questa valle senza prima aver ammazzato quell’infame. Ma mi dissi, raffreddando l’animo, che quel tempo sarebbe venuto al momento giusto, adesso dovevo pensare a uscire vivo da questo casino, perché mi ritrovavo da solo in mezzo alla Val d’Orcia vestito da miliziano fascista. Se avessi superato questa prova, avrei visto la fine della guerra…

[…]

Irrimediabilmente zoppo, dimagrito, sul mio volto incavato vedevo adesso nello specchio, quando mi radevo, un naso storto e più piatto di prima, orribile, non mio. E quando ridevo i due incisivi spezzati di netto dai pugni sembravano cocci rotti. Non ero più io, non era la mia faccia quella, e lo sguardo che lo specchio mi restituiva era quello di un uomo vecchio, stanco e incattivito. Questo rottame zoppicante non era Matteo Marini, ma Eugenio Malastella, che lasciò l’ospedale il 6 agosto 1944. Leggere il mio nuovo nome sulla cartella clinica e apporre sotto di esso la mia prima firma assunse per me il valore simbolico di una rinascita, e accettai la scommessa che il destino mi gettava ai piedi. Avrei dato un’ultima opportunità al neonato di vedere che al mondo non c’era solo violenza e menzogna, ma che da qualche parte sarebbe ancora stato possibile amare e fidarsi del prossimo. Lo avrei presentato ai miei, avrei recitato la mia parte fino in fondo e l’avrei fatto per gioco, per fare un ultimo sberleffo alla mala sorte che aveva cercato in tutti i modi di imbrogliarmi. Solo quando avessi sentito la voce amata di mia madre chiamarmi col mio vero nome, solo allora avrei saputo che l’incubo era terminato, che quello ero ancora io, non un altro.Con i pochi soldi che ricevetti dall’assistenza pontificia per gli sfollati e i profughi di guerra, riuscii a malapena a spedire un biglietto a casa. Vestito con abiti nuovi, lasciai la città risoluto stavolta a tornare davvero a casa. Ancona era stata liberata dai polacchi il 18 luglio, il fronte era salito verso nord e le strade, per quanto malmesse, erano di nuovo transitabili, anche se ero certo che pullulassero di uomini malintenzionati che vedevano in ogni viandante l’ultima opportunità di arricchirsi a spese altrui. Non intendevo cacciarmi in nuovi guai, ne avevo avute abbastanza di avventure e poi la ferita mi aveva lasciato debole e letteralmente sfiatato. Quando ero già in Umbria riuscii a rimediare un passaggio fino a Fabriano, poi di lì proseguii a piedi e vidi con i miei occhi che ovunque la guerra era passata con uguale brutalità, distruggendo e lasciando morti, dispersi, sfollati, famiglie distrutte. Lo spettacolo offerto dai rottami tedeschi era impressionante e dava la misura della cecità con cui avessero fino alla fine si fossero gettati in battaglia senza risparmiare niente e nessuno. Lungo le strade, nei campi, fra le rovine dei paesi devastati, giacevano cannoni, carri armati, autoblinde su cui era possibile vedere l’effetto del fuoco alleato, una grandine di bombe, pallottole esplosive e incendiarie, di razzi, di granate. Molti corpi giacevano ancora nelle campagne, si decomponevano sotto il sole divorati dagli animali, e spandevano nell’aria calda un lezzo rivoltante.Infine l’11 agosto raggiunsi Ancona. Fu strano sentire che la tensione diminuiva adesso che entravo in città. Forse la vista di tanta distruzione lungo il percorso, una distruzione cieca che non aveva risparmiato nessuno, mi aveva come anestetizzato, e mi ripetevo che peggio di quel che avevo guardato con i miei occhi non poteva essere capitato in città e a casa. Intanto, però, saliva un’altra preoccupazione nella mia mente. Presto avrei incontrato i miei genitori, Alba, gli zii e le cugine, non sapevo se li avrei ritrovati tutti vivi e in salute, ma sarebbe stato uno dei momenti più intensi della mia vita. Poi sarebbe iniziato il dopo, e sarebbe incominciato nel momento in cui mi avessero chiesto dove ero stato e che cosa avevo fatto tutti questi mesi. La domanda mi avrebbe obbligato a tracciare una riga, e in quel momento avrei dovuto togliere la parola a Eugenio Malastella, parlare per lui, allontanarlo come un residuo di quel passato. Solo così avrei potuto dire la verità e restituire ai miei il figlio che ricordavano. La cosa, ovviamente, mi angosciava moltissimo, perché un fastidioso sentimento di vergogna mi saliva fino al viso quando ripensavo ad alcuni eventi degli ultimi mesi, e non riuscivo a mettere insieme le parole per raccontarli, per giustificarmi. E poi non mi sembrava giusto accusare di ogni cosa Eugenio Malastella, come se lo avessi indossato come si fa a teatro con un abito e una maschera di scena. Forse il tempo m’avrebbe suggerito la soluzione dell’enigma, e nella sua infinita saggezza avrebbe saputo scegliere per me il momento giusto per affrontare i fantasmi del passato. Adesso dovevo solo ritrovare i miei e ricominciare a vivere.In un’atmosfera irreale, in quella calda mattina di agosto, imboccai quella che un cartello forato dalle schegge indicava come la mia strada. Ci ero arrivato con difficoltà perché non riuscivo più a orientarmi nella città sfigurata, e non riuscivo a convincermi che quella fosse proprio la strada dove ero cresciuto, dove avevo abitato tutta la vita. Semplicemente non esisteva più, i palazzi che l’avevano chiusa dai due lati non c’erano più! Quel che ne rimaneva era ammucchiato in due alte e lunghe pile di calcinacci simili a tumuli, da cui emergevano pezzi di mobilia, travi spaccate, tegole, stracci. Ai piedi del troncone mozzo che un tempo era stato il mio palazzo, era stata innalzata una specie di palizzata dove stavano attaccate tante fotografie e liste di nomi di morti, feriti, dispersi, indicanti l’ospedale o il cimitero dove erano stati portati. Con orrore mi accostai barcollando e respirando a fatica per la polvere, il calore e il polmone malandato, e lessi con la testa vuota. Marini Norberto, Marini Anna, Marini Alba, Marini… Marini… Marini… Trattenni il fiato. Erano tutti lì. Morti il 1 novembre 1943. Matteo era l’unico disperso. Non c’era riuscita nemmeno la Russia.

Da La maschera (in La voce delle cose e altre storie – 2017)

Dovrei stupirmi se la porta della cella è aperta e se dal corridoio lurido filtra una luce accecante e un caldo che mi strappa l’aria dai polmoni? Ho sognato una città fantasma nel deserto, coi teschi bianchi nella sabbia e i cactus fra le pietre, simili a grottesche sagome umane. La cella è aperta e non c’è nessuno. Giro tra le case diroccate, tutto appare in sfacelo, le case basse di calce bianca sono ruderi, qualche tenda logora svolazza fuori dai buchi neri delle finestre. Lontano, un cane macilento si ferma e mi guarda. Chissà da quanto tempo non vede un uomo. Mi sento come una pietra che affonda in uno stagno nero. Con orrore mi soffermo su una sensazione che mi disturba da quando sono sveglio e mi guardo: i miei abiti sono cenciosi e sporchi, e come in un delirio mi accorgo di star pensando in una lingua che non è la mia! Capisco quel che penso e dico, ma non è la mia lingua, non ho mai parlato spagnolo, e invece adesso lo sento uscire cantilenante dalla mia bocca. Il prossimo sogno sarà mio o di questo messicano di cui vesto gli stracci? Io non sono più me, eppure penso come quello che ero prima di finire nei vestiti e perfino nel corpo di questo sconosciuto. Forse tutto questo era già nella mia testa? Posso dunque essere qualsiasi cosa, ovunque? Ora ricordo il ragazzo senegalese e la sua maschera. Già, la maschera… non la trovo più. Forse l’ho perduta chissà quando e dove, forse me l’hanno rubata. O forse l’ha rubata proprio questo sciocco messicano, senza nemmeno sapere che cosa farsene, e magari proprio per questo s’è fatto arrestare. Devo trovarla, se voglio tornare a casa.

Da Il sergente e il figlio d’Africa (in La voce delle cose e altre storie – 2017)

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Approfittando di un pomeriggio tiepido intriso dell’aroma mielato dei castagni, Omar s’avventurò nei boschi. Luciano aveva detto che sarebbe rimasto via due settimane per i sopralluoghi di un nuovo cantiere. Omar sapeva che era con Giulia, non esisteva alcun cantiere. S’immaginava Giulia poco più grande di sé, una di quelle donne sicure che allungano la mano e prendono ciò che vogliono, con un’alzata di spalle. Come altrimenti si poteva stare con Luciano? Come Abeba. Ma no, Giulia era viva, possessiva, ferina. A passo spedito s’incamminò lungo la Provinciale. La quiete del bosco gli sgombrava la mente. Sotto l’ombra incostante del fogliame, il sentore di felci e foglie morte lo attrasse più nel fitto. Il silenzio era interrotto solo da qualche richiamo d’uccelli invisibili tra le fronde, e dal suo passo sul fondo molle. La volta dei rami, come una cattedrale, emanava un’energia misteriosa. Anche la nausea s’allentò man mano che s’addentrava. D’un tratto uno scuotimento di frasche lo spaventò. A una decina di metri le fronde oscillavano sconvolte come se qualcosa vi fosse piombato contro. Poteva essere un cinghiale, meglio esser prudenti. Ma il sottobosco si smosse ancora e apparve per un istante una forma che Omar giurò essere un uomo in mimetica. Possibile che un cacciatore si spingesse fin sotto le case? Era un pazzo incosciente, e si gettò avanti per affrontarlo. Per quanto fece, però, graffiandosi tra i rami arruffati, non lo trovò più. Riemerse invece su una stradina a sterro dove non s’orientava più. Prese a risalire verso l’alto, convinto che presto avrebbe incrociato la Provinciale, ma la strada curvava verso destra e riprendeva a scendere, nella direzione opposta. In un attimo seppe d’essersi perduto. Poco male, pensò, era dietro casa e proseguì lungo la stradetta, finché intravide una casa malmessa, coi mattoni scoperti e senza intonaco, un tugurio squallido. Dirimpetto sorgeva lo scheletro di un fienile senza pareti, dove razzolava una dozzina di galline. Un grosso cane incominciò a latrare convulsamente e diede tali stratte alla catena da far tremare il palo. Un contadino tozzo apparve dabbasso. Indossava un paio di calzoni sporchi e rattoppati, una canottiera bianca e un cappello di paglia. Già di lontano si scorgeva la pelle sudicia del collo e delle braccia, cotta dal sole e spessa. Nella mano destra trascinava una zappa dal manico ricurvo, più simile a una clava preistorica che a un attrezzo di lavoro.«Giù Dik, per Dio, o t’ammazzo», urlò al mastino alzando la zappa. Poi si volse a Omar, rimasto immobile dove incominciava un frutteto inselvatichito, scosceso e infestato d’erbacce.«Che vuoi?», chiese il contadino dalla distanza.«Mi sono perso.»«Ci mancava un altro negro», disse e bestemmiò. «Vattene. Tornatene a casa tua. Non ti voglio vedere più sulla mia terra, hai capito?»Omar lo guardò con odio. La lingua in bocca sembrava trasformarsi in sabbia.«Sei sordo? Vattene!», gli urlò il villano alzando la zappa, e bestemmiò ancora con voce roca. «Hai sentito? Vattene o ti spacco la testa!»Il sole sulla testa gli infiammava la mente. Avesse avuto un’arma, l’avrebbe freddato sotto lo sguardo ebete dei polli. Poi il cane avrebbe leccato il sangue. Con uno sforzo che lo svuotava, Omar tornò indietro barcollando. Si voltò ancora una volta prima di sparire dietro la curva. L’altro, fermo sul viottolo, pareva ridere. Annaspando, cercò di riconquistare l’ombra del bosco per togliersi da quel sole bestiale, ma la strada era polverosa e le gocciole di sudore colavano per la schiena, bruciavano negli occhi. E all’improvviso sentì una voce tanto familiare quanto inverosimile, inconfondibile, dentro le orecchie: «sei un vigliacco. Ti fai chiamare negro da quel pezzente. Torna indietro, fallo fuori, fallo sbranare dal suo stesso cane…». Omar indietreggiò inorridito, ma lo raggiunse subito una seconda voce arrochita: «ha ragione, non ci vuole niente, tu sai come si fa…» Un fruscio d’automobile pochi metri più in alto disperse il tumulto. La Provinciale era appena oltre il dosso e quando Omar lo scavallò, il paesaggio delle colline gli apparve davanti agli occhi come un mondo nuovo. Allungò il passo, ma le gambe tramavano e la faccia era tutta stirata dall’emozione. Avrebbe voluto stendersi giù nel fosso e dimenticare tutto. Finalmente il fogliame si diradò, una stradina lo sbucò su un piazzale sterrato.

Da Uno strano scherzo (in La voce delle cose e altre storie – 2017)

Non ha il coraggio di mettersi al lavoro. Teme di non riuscire a scrivere niente di simile a quel che ha appena letto e che la fatica e lo spreco di forze avranno conseguenze gravi anche sulla sua eventuale capacità di scrivere altro. Eppure deve tentare, così si fa forza e va nello studio, dove prende i fogli rimasti sullo scrittoio e per prima cosa si accorge con stupore che sulla prima pagine compare il titolo Il cacciatore. Non ricordava affatto di averlo scritto ieri sera. Comunque, questo cambia le cose, o meglio le mette a fuoco. Paul Riga avrà una caratterizzazione precisa, un destino di predatore, anche quando fuggirà braccato. Di nuovo Keller pensa alle femministe e un brivido lo assale, ma poi si rianima, pensa alla scena della fuga e subito gli vengono in mente un paio di episodi avventurosi, forse potrà cavarne una dozzina di pagine. Intanto continua a sfogliare il mazzo di fogli e si stupisce del fatto che questa roba, sia quel sia, però non sembra male: scorre bene e ha anche una sua profondità. Keller non ricordava di aver indugiato con tanta levità e concisione sulle descrizioni, tutto è così visibile e reale, calibrato, che anche i personaggi che si muovono fra le cose ricevono da queste un po’ del loro spessore. E quando Riga apre bocca, è incredibile! Ha carattere, senso dell’umorismo, e soprattutto parla una lingua così vera, così viva, attraverso la quale riesce ad esprimere non poche idee intelligenti sulla passione, sull’amore, sul perché certi uomini a volte preferiscano gettarsi nel gorgo del pericolo pur di inseguire una chimera – una femmina stava per dire. Keller è incredulo, si domanda come abbia potuto essere così pessimista e negativo solo pochi minuti prima. Adesso pensa seriamente che potrebbe anche tirarne fuori qualcosa di decente, e messosi a sedere prende a scrivere degli appunti scarni sui due episodi che ha appena intuito. Però, di aver scritto le pagine che ha sfogliato e soprattutto i dialoghi e i monologhi interiori di Riga, proprio non si ricorda. Gli sembra quasi di vederselo davanti, Paul Riga: adesso ha un aspetto florido e affascinante, è un bell’uomo aitante di mezza età, ma non è tanto la forza virile a renderlo interessante, quanto l’intelligenza a tratti cinica che gli innerva l’espressione e lo sguardo. Il passo è sicuro, la falcata da conquistatore, e la maglia nera che indossa gli modella il corpo in un oggetto di desiderio – almeno Keller lo spera, perché non sa cosa e come desiderano le lettrici e perché un po’, in fondo, anche lui vorrebbe somigliare a Riga. «Un eroe pericoloso», pensa Keller, «non mi sarà facile tenergli testa, soprattutto se scrivo in apnea e poi me ne dimentico.» Deve ammettere che alcuni dialoghi, rileggendoli, sono perfino migliori per ritmo, equilibrio e colore di quelli cui lui ha abituato il proprio pubblico smilzo dei lettori raffinati. «Che strano scherzo», pensa.

Da Naso di legno (in La voce delle cose e altre storie – 2017)

Alle tre e mezzo, sistemata sala e cucina, vide che era rimasta ancora roba a sufficienza per la cena. Pinocchio se n’era rimasto silenzioso. Il suo sguardo, come sempre, era perso chissà dove. Antinoo lo salutò con un cenno della mano e uscì nel sole caldo sulla strada deserta, senza meta. Puntò verso i giardinetti della stazione, cambiando direzione con stizza, dunque si rassegnò a seguire i piedi attraverso il dedalo del centro con gli occhi fissi in terra, come chi cerca qualcosa che ha perduto. Oltre Corso Italia, superò piazza Cavour e proseguì su via Garibaldi e finalmente oltre largo Bezzecca si ritrovò fuori dal clamore risorgimentale e ai margini della campagna, solo coi suoi pensieri. I campi s’aprivano a destra e sinistra, tagliati dai canali. Poiché capita spesso che un uomo che cerca di scansare i propri guai non trovi di meglio che pensare a quelli altrui, Antinoo si ricordò del povero Aldo, che non aveva più il coraggio di andare a specchiarsi sulle acque ferme tra le canne. Questo sì che era un guaio. Si poteva perdere la passione per la vita al punto d’aver bisogno d’una patente, per continuare a vivere? Aveva una famiglia, una casa dove rientrava ogni sera salutando con un bacio le sue donne. Tutto questo era meglio che una statua di legno che nemmeno ti guarda in faccia. Forse anche sua moglie non lo guardava in faccia, forse anche lei era diventata con il tempo una statua di sale. Così, camminando con le mani in tasca e una spighetta di gramigna tra le labbra, Antinoo si faceva filosofo e rifletteva sulla fortuna e sulla felicità. La sua vita aveva un capo e una coda, un centro e una periferia. Aveva trovato il proprio posto nel mondo e ci stava da uomo libero, integro. Se guardava fino ai confini del suo regno, vedeva ordine, ma non felicità. O era impallidita che pareva il fantasma di un affogato.Il sole scottava. Sugli argini dei canali s’arrestò all’ombra dei pioppi e vide due pescatori. Fermi, silenziosi, pazienti, parevano essersi uniti all’ambiente e al paesaggio, verdi come le rane, smilzi come le canne, fermi come le acque, muti come i pesci. Di tanto in tanto davano una toccatina alla canna, perché la lenza non s’ingarbugliasse tra le erbe del fondo. Uno di loro si voltò e lo salutò. Era Cesare, e da quando era andato in pensione un anno fa, sembrava rigenerato. Qualcuno aveva detto che si fosse trovata l’amante più giovane di vent’anni, ma Antinoo diceva che erano solo chiacchiere d’invidiosi. Quand’anche fosse vero, che male c’era? Già, quando uno non è capace di fare la propria felicità, si consola sputacchiando su quella altrui.

«Si prende?», chiese.

«Mah. Aspettiamo. Non si sa mai.»

Antinoo tacque, rimuginava, masticando la spighetta e succhiandone un sapore amarognolo. Poi salutò e se ne tornò indietro con le mani in tasca. Al ristorante, Pinocchio come sempre guardava via.

«Che fai, mi tieni il muso?», gli chiese chiudendosi la porta alle spalle. «Parli bene tu, che dalla vita non t’aspetti niente. Imperturbato, te ne stai qua e vedi quel poco di vita che passa dalla porta, sempre la stessa. Ascolti, giudichi e te la ridi, ma poi, quando è il momento di dire cos’è che davvero pensi, taci e giri quei tuoi occhiacci di legno sempre da un’altra parte.»Antinoo entrò in cucina di malumore, e come sempre quando gli saliva una preoccupazione aveva una fame spropositata. Aprì un barattolo di tonno, lo mischiò con l’insalata e le olive nere, poi si tagliò un tozzo di pane e tornò di là.

«Che buio che c’è qua dentro…»

«Che m’importa, per mangiare mi basta la bocca.»

«Diceva un uomo saggio, che spegnere la luce è utile per nascondere, ma non per trovare. Quanti sforzi fai, per non vedere, per non dirti le cose come stanno.»

«Ah! Senti chi parla. E come starebbero le cose?»

«Da’ retta, una volta.»

«A chi, a te? Al re dei bugiardi? Mi fai ridere.»

«Non hai nessuno, vecchio mio. Vedi cosa ti conviene.»

«Sentiamo», si arrese Antinoo.

«Non ho niente da dirti che tu già non sappia.»

Antinoo si distrasse pensando ai pescatori e ad Aldo, che aveva rinnovato la licenza per andare ai canali, fra le rane e le zanzare, ad aspettare i suoi pesci.

«Lo vedi?», riprese la voce nasale. «Continui a tergiversare, a pensare alla vita degli altri come se non si trattasse invece della tua, e fingi. Con me! Ci pensi? Mi fai ridere e mi fai rabbia.»

«Sta’ zitto, culo di legno. Sei un barbagianni e un ficcanaso.»

«Ti sei accorto di dove sei seduto?»Antinoo smise di mangiare e alzò gli occhi dal piatto guardandosi intorno. Quando sedeva in sala da solo, il suo tavolo era sempre quello vicino al bancone, accanto al passaggio per la cucina. Ma oggi stava seduto nell’angolo sotto la finestra, dal lato opposto all’ingresso. Proprio di fronte alla sedia che aveva occupato lei.

«Bentornata, signora», disse Pinocchio strafottente.Antinoo guardò la statua e per la prima volta gli parve, nella luce fioca, che con i grandi occhi guardasse proprio lui.

«Lasciami stare. Non penso a un bel niente, ho cose più importanti per la testa.»

«Allora ti racconto una storia. C’era una volta un pescatore che non riusciva mai a prendere nemmeno un pesce, e i suoi compagni lo sfottevano. Eppure conosceva i luoghi migliori per pescare e ci andava quando tutti dormivano, solo come un eremita. Nel buio si sedeva sulla riva e aspettava. Quando il galleggiante incominciava a muoversi, il pescatore lo osservava e si domandava se fosse il momento o se non fosse meglio aspettare ancora. Poi il galleggiante spariva sott’acqua e un attimo dopo tornava su, immobile. Allora il pescatore recuperava la lenza e vedeva l’amo. L’esca dev’essersi impigliata tra l’erba, diceva. Ne metteva su un’altra, la calava nell’acqua torbida e tornava a sedersi.»Antinoo si alzò scostando la sedia con stizza e filò in cucina con il piatto lasciato a metà. Aveva perso l’appetito.

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