Rappresentazioni della crisi
Grumo Nevano, Marchese, 2015

La Grande Guerra ha modificato profondamente l’orizzonte culturale
della civiltà europea contemporanea, aprendo una crisi che ha contrassegnato tutto il ventesimo secolo. Nella letteratura il segno della Grande Guerra si è inciso in profondità, non solo attraverso la trasformazione del sistema dei generi ma anche con la comparsa di nuovi soggetti all’orizzonte della letteratura. Il concetto di “crisi” implica la consapevolezza del fatto che le proprie certezze e i propri abituali parametri culturali e etici sono diventati inadeguati, e non riescono più a spiegare il mondo. Con la Grande Guerra la crisi si manifesta nell’inquietudine con cui i testimoni del conflitto tentarono di affidare alla scrittura un’esperienza difficile da comprendere e da comunicare. I quattro saggi qui proposti indagano questa inquietudine della scrittura, spaziando dalla linguistica alla filologia, dalla comparatistica alla riflessione filosofica, nei testi di autori classici come D’Annunzio, Ungaretti, Tessa, Malaparte e Giono, così come nei diari inediti dei soldati semplici conservati presso gli archivi, e nei diari di guerra del filosofo Ludwig Wittgenstein.
Codici della frammentazione. Lingua, tempo e paesaggio nella poesia italiana della Grande Guerra.
Matteo vercesi
L’intervento intende indagare alcune tematiche relative alla rappresentazione della Grande Guerra espresse dai poeti italiani, attraverso l’enucleazione ed il sovvertimento di tre codici primari (lingua, tempo e paesaggio), in un’ottica di ridefinizione e riappropriazione di un senso etico collettivo disgregatosi durante gli anni del conflitto bellico. Si parte dal poeta in dialetto milanese Delio Tessa (1886-1939), il quale attua un processo di rottura degli schemi lirici tradizionali operando una divaricazione di metrica e sintassi, «per fratture e dissonanze», offrendo in tal modo un suggestivo affresco della progressiva lacerazione degli statuti logico-razionali in Caporetto 1917,poemetto tratto dalla raccolta L’è el dì di Mort, alegher (1932). Un tessuto poetico-narrativo che presenta elementi innovativi nella pluralità di piani sintattici in contrapposizione, ove l’“io lirico” appare decentrato rispetto agli eventi, ai paesaggi e alle scene che si susseguono (la fuga dei contadini, la periferia urbana con gli stabilimenti, fino alla tragedia finale di una gioventù mandata al macello nelle trincee e all’amara constatazione della disfatta del Paese); la soggettività sembra disperdersi in una collettività allo sbando, schiacciata dal peso della grande Storia e dalla mancanza di partecipazione condivisa. Si continua con le raccolte degli anni Venti di Clemente Rebora (1885-1957): Prose liriche (1915-1917) e Canti anonimi (1920-1922), ove emergono, per pregnanza simbolica, composizioni dal tono espressionistico che delineano la drammatica esperienza di partecipazione alla guerra da parte del poeta, attraverso frantumazioni di ritmo e lessico. Si giunge poi a Giuseppe Ungaretti (1888-1970), che ne L’Allegria (1931) – soprattutto nella celeberrima lirica San Martino del Carso, scritta nel 1916, con i versi memorabili: «È il mio cuore / il paese più straziato» – esprime un senso di desolazione e perdita che ha pochi eguali nella lirica del Novecento. Infine, si propone un frammento tratto da un diario inedito del 1951 del poeta Biagio Marin (1891-1985), ove si fa riferimento agli anni dell’“inutile strage” ricordando le figure di Giuseppe Prezzolini e Scipio Slataper.
La guerra come esperienza etica e come estetismo: i diari di guerra di Wittgenstein e di D’Annunzio.
Patrizia Piredda
Questo articolo si propone lo scopo di mostrare come l’esperienza della Prima guerra mondiale sia stata percepita e rappresentata in D’Annunzio e in Wittgenstein. Partendo dalla distinzione fatta da Kierkegaard tra vita etica e vita estetica, vedrò come nel caso di Wittgenstein la guerra porta alla luce la necessità etica di cercare i limiti del linguaggio che corrispondono ai limiti stessi della persona. Il limite dell’uomo Wittgenstein è percepito al confronto della purezza di Dio come una sostanza immeritevole, come un segno di un’esistenza imperfetta, manchevole di bontà e bisognosa di redenzione che l’individuo vive in una costante tensione verso l’unità trascendentale e la volontà di migliorare se stesso attraverso l’azione per divenire un essere dignitoso. Nel caso di D’Annunzio, invece, la guerra rappresenta la possibilità di confermare la propria aspirazione all’eroismo. D’Annunzio descrive se stesso come un’eccezionalità unica che, in quanto dotata di straordinaria sensibilità per il bello, è accostata alla divinità e, in quanto tale, è in grado di guidare la massa verso la redenzione; una eccezione che non ricerca nessuna unità perché già la possiede e che nell’azione esteticamente eroica si reputa meritevole della giusta e bella morte.
La percezione del conflitto nei combattenti italiani della Grande Guerra.
Antonio Petrossi
Gli studi più recenti sulla Grande Guerra hanno messo in rilievo le profonde trasformazioni che i suoi eventi traumatici hanno provocato sulla coscienza dei partecipanti al conflitto. Il senso di estraniamento di fronte alle esperienze vissute, perché sconosciute al paesaggio mentale tipico che un individuo poteva percepire, richiedeva un’attività che fosse capace di ricomporre il senso di quanto si viveva quotidianamente. La partecipazione alla guerra è un’esperienza memorabile, così diversa dalle usuali categorie di pensiero da non poter essere narrata secondo la normale esposizione della comunicazione orale, ma doveva essere necessariamente affidata alla narrazione scritta. La compilazione di un diario è un’operazione complessa, perché è rivolta a un tempo altro e ulteriore di quello della scrittura: al testo lo scrivente affidava la funzione di preservare la memoria degli eventi che viveva, troppo complessi e incomprensibili per affidarli alla sola memoria. Il contributo analizzerà le forme e le modalità linguistiche utilizzate dagli scriventi nella compilazione dei diari, concentrandosi sui modi della percezione linguistica nell’avvertire il conflitto.
Il “rifiuto d’obbedienza”. Pacifismo e rivolta in Jean Giono e in Curzio Malaparte.
Gianluca Cinelli
Una delle risposte etiche al conflitto, e alla sua brutalità che crebbe fino a estremi mai prima conosciuti dai combattenti di linea nel 1917, fu la disobbedienza. Praticata individualmente come rifiuto silenzioso, disfattismo, o critica attraverso le lettere e i diari, la disobbedienza divenne nel 1917 un fenomeno di massa con gli ammutinamenti di interi reggimenti sul fronte francese, su quello russo e infine su quello italiano. Nonostante la gravità e l’estensione del fenomeno, gli ammutinamenti furono contenuti e puniti con durezza, e con l’eccezione del fronte russo la guerra continuò. Jean Giono scrisse nel 1931 il romanzo autobiografico Le grand troupeau, in cui la guerra era rappresentata come orrore e degradazione, ma fu soprattutto nel 1939, con la pubblicazione dei saggi di Refus d’obéissance, che elaborò un rifiuto della guerra come pacifismo radicale. Curzio Malaparte, partito nel 1914 a sedici anni volontario con la Brigata Garibaldina per il fronte dell’Argonne, dal 1915 al 1918 combatté sul fronte italiano in fanteria. Nel 1919-1920 scrisse Viva Caporetto!, che fu confiscato e ripubblicato nel 1921 con il titolo La rivolta dei santi maledetti, dove l’autore narrava con tono polemico il modo in cui si giunse alla sconfitta di Caporetto, che ai suoi occhi rappresentava l’inizio della rivoluzione proletaria in Italia, che il fascismo prometteva di condurre a termine. I due autori offrono due opposte visioni del rifiuto d’obbedienza, entrambe principiate da una reazione etica all’ingiustizia: per Giono la guerra stessa fu ingiusta perché rese il contadino, che rappresentava la maggiore parte dell’esercito francese, schiavo dello Stato capitalista che lo sfruttava come uno strumento. Malaparte non rifiutò la guerra ma il modo in cui gli alti comandi italiani e l’opinione pubblica la condussero, sacrificando con crudele indifferenza la fanteria, composta in gran parte di contadini, nei quali Malaparte vide l’espressione più genuina della razza italiana. In questo intervento porterò in luce le differenze fra i due modi di concepire il rifiuto d’obbedienza come pacifismo in Giono e come rivolta in Malaparte, e mostrerò come i due discorsi risposero al problema della guerra e della pace nel dopoguerra in Francia e in Italia, con debolezze concettuali e contraddizioni che tuttavia non inficiano il valore della testimonianza che i due autori portarono del conflitto mondiale.