Romanzo
Ancona, Italic, 2019

Un mattino grigio di fine inverno, nel mezzo di un funerale, Remo ricompare all’improvviso nei luoghi della sua prima giovinezza, come un fantasma. Anche i suoi vecchi compagni di gioventù stentano a riconoscerlo. Per dieci anni ha vissuto a Berlino, dove è diventato un poeta famoso, fino al giorno in cui è sparito senza lasciare tracce per molti mesi. Adesso Remo è tornato con un terribile segreto: come in un oscuro incubo confuso, ricorda di essere stato rapito da un uomo misterioso di cui non ricorda il volto, imprigionato nella città di K., e lì torturato. Eppure, tutto ciò rimane nella memoria come un buco nero di cui Remo stesso non riesce a capire il significato. Con l’aiuto di suo fratello Ettore e della moglie Giulia, Remo cerca di ricostruirsi una vita, ma questa inizia ben presto a popolarsi di incubi e di allucinazioni, che si sovrappongono alla realtà fino a dissolvere il confine tra il sogno e la veglia. Attraverso una serie di incontri con personaggi inquietanti, ambigui e misteriosi, Remo si addentrerà sempre più a fondo nell’oscurità della propria coscienza, fino a comprendere che solo affrontando i propri demoni potrà svelare il segreto della città di K. e ritrovare se stesso.

Il volume è stato presentato il 14 febbraio 2020 alla Biblioteca Civica di Biella.
Dal libro
Il mare soffiava sulla terra nuvole d’un grigio piatto e
in quel cielo smorto ondeggiava un circolo di grossi corvi.
I loro richiami striduli sembravano una protesta contro la
primavera che tentava di spingersi fuori dalla terra e dalla
corteccia degli eucalipti.
Nelle aiuole già si scorgevano i ciuffi bianchi delle margherite
e davanti alla chiesa una mimosa fiorita spandeva il
suo profumo dorato.
La piccola folla sparsa sul piazzale della chiesa sembrava
tenersi a distanza, come intimorita, dal carro funebre.
Remo si sciolse dal braccio di Giulia e si spinse avanti
per un attimo, titubante. Quel volo di corvi l’aveva impensierito.
Per prima scorse Monica, che era adesso una
donna dall’aspetto serio e composto. Quando le fu davanti,
Monica non lo riconobbe se non per la sua voce brutta. Si
abbracciarono, non seppero che cosa dirsi.
E quella signora anziana, col naso a becco e il mento
affusolato che le faceva una faccia di pescecane, non era
l’Alberti, l’insegnante di latino del ginnasio? Gli stava davanti
con la faccia gonfia e inespressiva, non aveva idea di
chi fosse questo sconosciuto.
Remo non era invecchiato, ma c’era nel suo aspetto
qualcosa di arido, come una conciatura, cui s’aggiungeva
una certa aria fragile, che traspariva dallo sguardo inquieto,
dai capelli sottili e già imbiancati che si ritiravano sulle
tempie. I lunghi arti facevano pensare a un vecchio cavallo.
Quando dal lato opposto apparvero Stefano e suo padre,
dignitosamente raccolto in sé e come stordito, qualcosa gli s’ingorgò nel petto. Sull’antico compagno di scuola
il tempo non sembrava essere trascorso. La stanchezza e
la tensione nervosa gli velavano appena lo sguardo, ma il
volto manteneva vivo il ricordo che Remo conservava di
lui giovane, vivace, giocoso. Solo da vicino poté scorgere i
solchi delle rughe attorno agli occhi. Si abbracciarono attoniti.
Nessuno s’aspettava di vederlo. Da anni Remo era uscito
di vista, nessuno aveva più avuto sue notizie per molto
tempo. Erano girate voci, s’era detto che fosse finito nei
guai, che fosse malato. Alcuni avevano commentato che
c’era da aspettarselo.
Era un tipo strano, uno di quelli che divagano, che
vedono cose che nessun altro vede, una testa leggera e, a
quanto pareva, fragile. La maggior parte di quelli che si
trovavano lì per il funerale l’avevano conosciuto come un
ragazzo taciturno, riflessivo, introverso. Non s’era mai curato
troppo del mondo esteriore, dei legami affettivi e delle
relazioni. Tuttavia, quelle poche che aveva costruito in vita
sua erano rimaste salde e profonde.
Nulla di ciò che lo circondava aveva per lui un carattere
meramente fisico, benché questo non facesse di lui un
mistico. Ateo fin da giovane, non credeva che il cielo fosse
pieno di spiriti. Al contempo, però, quel che normalmente
si chiama realtà non s’esauriva per lui nelle forme visibili
e nelle catene dei legami intelligibili. Il suo modo di “fare
esperienza” era una specie di speleologia, ma fatta come
avrebbe potuto farla un uomo preistorico, con meraviglia
e con orrore.
Per gli altri, il suo modo di comportarsi restava un mistero
affascinante, suscitava inquietudine e perplessità, mai
il riso però.
Remo era uno di quegli individui che già da ragazzi
sembrano vecchi e tetri. Uno spirito di cui si parla sempre
abbassando un po’ il tono, come per commentare una disgrazia.
Come se esistesse contemporaneamente su diversi
piani paralleli, era capace di essere presente e assente nel
medesimo istante, e la sua lucidità era sempre distratta,
come se un richiamo distante lo distogliesse in continuazione.
Per lui ogni cosa era se stessa e più di se stessa, una commistione
di realtà e sogno che con gli anni era divenuta
tanto abituale quanto trasparente.
Il padre di Stefano gli strinse la mano ringraziandolo.
L’aveva riconosciuto a malapena. Sul suo volto stanco e
pallido, indugiavano i segni di quella che era stata sicuramente
una sofferenza profonda e prolungata, ma anche
uno sguardo ancora vigile e trasognato, lo sguardo di un
fanciullo.
Li seguì dentro, fin quasi all’altare, davanti al quale stava
la cassa coperta di fiori. Quell’odore dolce e stantio lo
faceva tremare.

…
Aveva dormito a lungo, senza sogni. Svegliandosi si ritrovò
solo nella grande casa vuota, avvolto in un silenzio
ovattato. La luce si spandeva tenue attraverso le tende, ogni
oggetto era annebbiato dalla carezza di questo chiarore.
Sul tavolo della cucina, accanto alla colazione, Giulia
aveva scritto su un foglietto gli orari della giornata e le
istruzioni per orientarsi in casa e cucinarsi qualcosa. Anche
lei sarebbe rimasta via fino al pomeriggio. Tuttavia, non
aveva intenzione di restarsene lì da solo tutto il giorno.
Si vestì con grande calma, pensando a come impiegare il
primo giorno della sua nuova vita.
Girò un po’ per l’appartamento e osò finalmente spingersi
oltre la soglia delle stanze da letto. Quella dei ragazzini
era oblunga e occupata longitudinalmente dai due letti,
su una parete, e dall’armadio sull’altra. Tutta la mobilia era
gialla come se tra quelle quattro mura bianche fosse stato
catturato lo spirito stesso del mattino. I classici per ragazzi,
Stevenson, Conan Doyle, Salgari, s’allineavano colorati sugli
scaffali. Sopra il letto che doveva essere di Enrico c’era
un’Odissea tutta stropicciata.
Giocattoli d’ogni sorta giacevano raccolti in due mucchi,
da cui emergevano le personalità diverse dei due fratelli.
Ancora informe e caotica quella di Giorgio, un bambino
estroverso che preferiva i giochi rumorosi e fisici, le cose
di Enrico rivelavano invece un ragazzino quasi pronto per
nuove esplorazioni di sé e del mondo, riflessivo, di quelli
che si tengono gelosamente dentro i pensieri e le emozioni.
Dalle tendine color tuorlo d’uovo, dei colorati orsacchiotti
cicciosi ammiccavano sorridenti. Era lo scenario di
un’infanzia felice e serena, quello che Remo osservava con
sollievo dalla soglia della porta.
Poi scorse un foglio di carta appeso all’armadio. Entrò
per osservarlo meglio. Era un lavoro ingenuo. Enrico v’aveva
ritratto la sua famigliola, con i nomi allineati sotto i
pupazzetti, contro uno sfondo di cielo estivo pieno di sole
e nuvolette bianche. Tutti i personaggi sorridevano, tranne
l’ultimo, privo di lineamenti. Sotto questo, lesse il proprio
nome.
Remo indietreggiò e uscì dalla stanza. Gli sembrava di
respirare una materia densa e gommosa. «Che vuol dire…»
continuava a ripetersi, andando a vuoto dalla cucina al salone.
Immerso nell’atmosfera quieta delle stanze silenziose,
sentiva che gli sarebbe stato impossibile restare in quella
casa.
Essa materializzava un’idea di vita che lui aveva abbandonato
da molto tempo, lo scenario perfetto di una felicità
incomprensibile. Partire di nuovo, continuare a muoversi,
era la sola via d’uscita possibile.
…
La frescura dell’androne, buio e odoroso di varechina, lo
fece esitare per un istante. Giada era già sul pianerottolo e
si sporgeva verso di lui.
«Non ho una vista sul mare, ma un prosecco ghiacciato.»
Mentre salivano, Remo si pentiva. Giada aveva un modo
strano di parlare, come se ogni suo pensiero fosse una citazione,
e incominciava a irritarlo. Su ogni argomento aveva
sempre un’osservazione sagace e compiaciuta da esporre. Il
suo ego impregnava i discorsi come un liquido vischioso.
L’appartamento era accogliente e caldo, raccolto in poche
stanze dal soffitto basso, luminose, arredate con grazia
e cura dei particolari. La mobilia era sobria, bianca e nera,
moderna e minimale, specchio di un’anima polemica e lucida,
capace di oscillare da un polo all’altro delle emozioni
più intense. I pochi oggetti artistici erano disposti in modo
scenografico. Si trattava di cose dozzinali, forse, stampe di
quadri contemporanei, statuette e maschere etniche, vasi in
gres e una composizione di altissimi sgabelli in teak su cui
erano posate delle biglie di vetro e pietra.
Il salotto era il cuore della casa. Vi aleggiava un profumo
penetrante e dolce, una mistura d’incenso bruciato e d’aroma
amarognolo di fiori. La libreria, bianca, geometrica, era
risoluta e arrogante. Remo restò a osservare quella parete
di libri quasi ostile. I classici erano allineati in basso, ampi
volumi che sembravano sorreggere come pilastri il peso di
tutta la costruzione.
C’erano Omero, Manzoni, Rabelais, Platone, Pascal, i
tragici greci, Shakespeare e i russi, poi i grandi inglesi e
Proust, Melville e Rousseau. Salendo s’incontravano sulle
ali, disposte attorno alla falange dei romanzieri contemporanei,
i poeti, a destra, e i saggisti a sinistra. Lucrezio, con
Catullo, Orazio, Pindaro e Saffo, erano circondati da Ovidio,
Dante, Ariosto e Tasso da un lato, mentre Baudelaire,
i francesi, con Lorca, gli ispanici e Neruda tenevano l’altro.
Appena sopra, come un’avanguardia d’esploratori, Montale,
Caproni e D’Annunzio seguivano i moderni, i minori,
gli sparpagliati. Fra questi, scorse le sue raccolte.
Tralasciò di studiare la collezione di critica letteraria e
passò in rivista la linea dei romanzieri, predilezione assoluta
della padrona di casa. Tutti i titoli che una buona biblioteca
avrebbe dovuto possedere erano lì, con i moderni
e gli sconosciuti, i giovani, gli esordienti, copie evidentemente
residue di recensioni e presentazioni. Questa era la
biblioteca di un letterato, di un critico militante e di un
romanziere.
Giada, silenziosa come un’ombra, gli era apparsa accanto.
S’era tolta la giacca scoprendo la muscolatura della
schiena, visibile tra i legacci della blusa. Un aroma cupo e
liquoroso si spandeva per la stanza.
«Ti ho portato il vino.»
«Grazie. La tua biblioteca è ricca» le rispose prendendo
il bicchiere dalle sue dita.
«Ho raccolto questi libri per tutta la vita. Ne avevo molti
altri, ma questi sono quelli che restano, quelli che contano.»
«Anche quelli là?» chiese lui indicando la selva dei romanzetti.
«Non lo so, potrebbero.»
Remo afferrò Moby Dick e lo aprì là dove il volume,
morbido e flessibile, si offrì come un corpo si concede a
carezze desiderate. Lesse alcune righe, poi richiuse il volume
e rimase a soppesarlo tra le mani, prima di riporlo sullo
scaffale.
«Si pubblica spazzatura, oggi» disse definitivo.
Giada stiracchiò un sorriso nervoso.
«Se qualcuno oggi osasse scrivere qualcosa di simile»
proseguì, indicando il libro che aveva appena riposto, «e se
esistesse ancora un editore con il coraggio di pubblicarlo,
potrei correre il rischio d’aprire un romanzo scritto negli
ultimi dieci anni.»
«Ti dai delle arie.»
«Può darsi» le rispose con indifferenza.
«Sono stati scritti libri eccezionali. Dove hai vissuto, per
non accorgertene? Non sai quello che dici e dovresti essere
meno categorico» lo redarguì Giada.
Non le rispose. Aveva ragione, ma qualcosa in lei e in
questa sua biblioteca di giovane scrittrice lo irritava in
modo esasperante. Che gl’importava dei capolavori della
letteratura? Quel modo di tappezzare il mondo di pagine
memorabili, quell’edificare la realtà come una bella storia,
gli faceva montare la collera.
«Brindiamo ai romanzi che nessuno scrive» disse tagliente.
«No. Brindiamo ai romanzi che tu non hai il coraggio
di leggere.»
Remo alzò le spalle e bevve tutto il bicchiere.
«Pensa a quante esperienze magnifiche hai perduto senza
saperlo» continuò Giada, ma attenuata, quasi suadente.
«Non è un peccato?»
Disse le ultime parole piantandogli gli occhi a fondo
nei suoi, boi bevve e si leccò le labbra sottili. Remo provò
uno sgradevole bruciore alla base della nuca. Il bel viso esile
e oblungo sembrò trasfigurarsi nel muso sfuggente d’un
rettile.
«Che cos’hai? Sei pallido.»
«Niente, è il vino.»
Giada gli lanciò un sorrisetto malizioso e gli prese il bicchiere,
sfiorandogli le dita.
«Allora basta così. Ti aspetto stasera, non sia mai che tu
cambi idea sui romanzi di oggi.»
Senza che avesse il tempo di replicare, gli posò un bacio
quasi sull’angolo della bocca, poi lo accompagnò alla porta
e lo spinse fuori. Rimase inebetito sul pianerottolo, la testa
ronzante e il naso pieno del profumo vischioso di Giada.
…
Il giorno dopo, si svegliò prestissimo e decise senza una
ragione apparente di andare a visitare i suoi vecchi, che da
diversi anni s’erano ritirati ai margini di un piccolo villaggio
alpino, sprofondato in una valle fra le montagne, non
lontano dalla Svizzera.
Un’irrequietezza molesta l’aveva strappato dal letto e costretto
a girare intontito da una stanza all’altra, misurando
in passi lenti il vuoto della casa silenziosa e guardando gli
oggetti prendere forma nella luce incerta.
Infine, dalla finestra aveva osservato la lastra d’ardesia
del mare emergere dal fondo nero della notte, oleosa sotto
le nuvole. Guardando l’orizzonte, gli sembrava che qualcosa
spingesse contro le pareti interne della testa per uscire e
vivere nell’aria.
Adesso, immerso nella luce bianca del neon, si osservava
nello specchio del bagno. Vedeva le guance già cadenti
e la barba biancastra. La pelle grinzosa attorno agli occhi
annunciava la vecchiezza che si faceva largo dal profondo
del corpo. La fronte, ampia, larga, spigolosa sulle tempie,
contrastava con questa impressione di disfacimento rinsaldando
in alto tutto il volto, cucito e trattenuto dalle folte
sopracciglia scure.
Sotto, gli occhi concentravano la forza vitale e l’irrequietezza
del carattere. Caldi, d’un castano morbido simile al
cioccolato fuso, apparivano mansueti e tristi. Solo il naso,
un monumento, pareva immune al tempo.
Con la lametta s’era tagliato un polpastrello e la macchia
rossa sul bianco della porcellana lo richiamò a sé. Si portò
il pollice alle labbra e succhiò l’aroma metallico del sangue.
Poi aprì l’acqua che lavò via tutto, lasciando solo il bianco
del neon sulla porcellana.
Quando fu vestito, tornò a scrutarsi nello specchio, da
lontano. Adesso la maschera era in ordine e saldamente attaccata
sul volto, come una protesi.
Quando scese le scale e uscì dal portone, trovò la strada
deserta e pulita, i rami ancora nudi dei platani scolpiti contro
il cielo chiaro. Tutto era in ordine, ma nell’aria immobile
c’era qualcosa di insolito, un’irrequietezza inspiegabile.
Al limite della paura, si voltò a guardarsi intorno, spinto
da una specie di presentimento. E scoprì di non essere solo.
Dietro di lui arrancava una creatura orribile a vedersi, un
uomo smagrito e piegato in due dallo sfinimento, che si
trascinava sulle mani e sulle ginocchia. Era vestito di stracci
e, quando sollevò la faccia comparve il ceffo sfatto di un
bambino vecchio. Ansimava e grugniva, e metteva del puntiglio
nel tirarsi in piedi, per poi ricadere giù penosamente.
Remo lo guardò con orrore, pietà e disgusto. Pensò che
fosse ubriaco fradicio. Era uno dei molti rottami umani che
ormai da anni le città vomitavano sulle strade, sempre più
numerosi. Non avrebbe potuto fare niente per lui, solo la
morte avrebbe potuto mettere fine a quella pena.
Così si voltò e proseguì verso la stazione, dove si mischiò
tra la folla dei pendolari che come ogni mattina si riversavano
sulla metropoli. La visione di quel relitto umano
lo turbava soprattutto perché gli riportava alla mente qualcosa
di lontano e semisepolto, come se in qualche modo, in
un altro tempo, avesse già visto quell’individuo.
Salì sul treno carico di gente, poi di colpo un odore
penetrante gli chiuse la gola. Sentì un tonfo del cuore. Il
pezzente se ne stava accucciato come un cane in un angolo,
attento a non farsi calpestare. Emanava un puzzo da voltastomaco
e Remo non osava guardarlo, anzi gettava occhiate
ansiose tutt’intorno cercando di capire se anche gli altri si
fossero accorti di lui. Ma nessuno mostrava insofferenza.
Nessuno si preoccupava di stargli lontano, nessuno si lagnava
del tanfo che stordiva.
Alla stazione della Piramide, la folla si disperse. Anche
Remo scese dal treno e cambiò con la metropolitana. Il
vagabondo era scomparso, l’incubo finito. Non poteva credere
che tutta quella gente ammassata nel vagone non si
fosse accorta della presenza di quel poveraccio. La puzza era
nauseante, peggio che in una gabbia di bestie. Era la puzza
della vita che si rivolta contro se stessa.
A Termini, finalmente, lasciò la metropolitana e muovendosi
tra la folla irregolare raggiunse il suo treno pronto
in banchina. Dopo pochi minuti s’era lasciato Roma alle
spalle e finalmente il corpo si distese.
Il vagone era tranquillo, l’aria perfettamente immobile,
inodore, appena tiepida. Le rade conversazioni sembravano
distanti fruscii di animali tra le frasche. Poi si spanse
un profumo di caffè al seguito di un ometto minuto che
spingeva un carrello.
Il treno correva tra i campi cinti dai colli. Perso nel
dormiveglia, lasciava che le impressioni mutevoli di quel
paesaggio formassero il tessuto colorato di un viaggio nel
tempo.
Non riusciva a immaginare quale piega potesse prendere,
a questo punto della sua vita, un ritorno improvviso
nell’esistenza dei suoi vecchi. Iniziava a temere il silenzio
paralizzante di suo padre, lucido e perspicace. «Non gli
sfuggirai» si lasciò uscir di bocca, e la donna seduta accanto
a lui si volse appena a guardarlo, incerta.
…

Lorenzo era lì e lo guardava tranquillamente, con i
grandi occhi blu che rispecchiavano la vastità del cielo e
del mare.
Non si aspettava di incontrarlo così, adesso, sul pontile.
Era una coincidenza bizzarra, eppure non se ne stupiva. Gli
sembrava di precipitare, di evento in evento, dentro un’avventura
di cui, man mano che le ore e i giorni trascorrevano,
si sentiva stranamente sempre più come lo spettatore.
«Come sapevi che sono qui?» chiese all’amico, salutandolo.
Lorenzo, come al suo solito, rimase fermo a qualche
passo, con le braccia lungo il corpo, inanimato. La sua presenza
sembrava priva di qualsiasi corporeità.
«Corre voce che tu sia tornato sulla scena» gli rispose.
«Non ne sono sicuro» obiettò Remo.
«Forse la tempesta sta passando» gli sorrise mitemente
l’amico.
Remo lo guardava impensierito, sospettando che conoscesse
la verità di quel che era accaduto nel corso degli
ultimi mesi. Ma come? Invece Lorenzo tornò serio e improvvisamente
disse con durezza: «Ho sentito dire che non
scrivi più. È vero? Che cosa significa?»
«Non ci riesco» si difese. «Non mi si forma più niente
nella testa. In realtà sembra che la cosa importi molto più
agli altri che a me. Io sto cercando di vivere, sai? Ho incontrato
dei ragazzi, ho insegnato loro qualcosa ma è molto
più quello che ho imparato io stesso. Certe volte mi sembra
di aver trascorso gli ultimi anni della mia vita dormendo e
adesso aspetto il risveglio.
«Ma tu sei sveglio, amico mio. Lo sei sempre stato. E
vigile, troppo vigile. Non devi stupirti, né puoi fartene una
colpa, se è questo che sei, se non sai vivere in altro modo
che questo.»
Come sempre, Lorenzo gli parlava con calma rassicurante.
E come quella prima volta nella libreria di Prenzlauerberg,
Remo sentiva che gli parlava dritto nel cuore.
«Per qualche ragione che non so spiegare» disse Remo,
«quando ci siamo conosciuti, ho temuto che le cose sarebbero
andate così. C’è qualcosa di traverso che non vuol
venire fuori, ma è inutile tirarlo con le pinze. Dev’essere
proprio questa vita che facciamo. Io non dovrei essere qui.
Mi ci ha trascinato la vita, e non riesco a oppormi.»
«Forse non si tratta di opporsi, ma di seguire la corrente
per spingersi più in là» obiettò Lorenzo.
«Ma dove? Da quando sono tornato, mi sembra di essere
l’unico morto fra i vivi. Tutti hanno continuato a vivere,
sono felici di esserci e si capisce che vorranno restarci il più
a lungo possibile. E tutti vorrebbero che io trovassi il mio
posto. Soltanto io non voglio esser qui, né altrove. Vorrei
non esserci mai stato. Tu mi hai fatto sbandare. Perché non
mi hai lasciato in pace?»
«Io non ho fatto niente. Non ne ho facoltà» gli rispose
l’altro con inoppugnabile gentilezza.
«Sapevo che sarebbe accaduto» disse Remo, sommessamente.
«No, non fraintendermi…» esclamò subito dopo, temendo
che l’amico avesse preso le sue parole come un’accusa.
«Io ho percorso questa strada, io da solo…» continuò,
ma poi s’interruppe. Il viso di Lorenzo sembrava emanare
una luminescenza diffusa, forse un riflesso del crepuscolo
sereno, e sorrideva in modo benevolo.
«Non puoi capire tutto, non è necessario. E non darti
pena di cambiare quel che è stato e di anticipare quel che
non è ancora. Guardati intorno, è tutto ciò di cui hai bisogno.»
Remo rimase ancora un poco a osservare una luce lontana,
arrancante sull’orizzonte appena visibile nel buio che
infittiva. Provò pena per quella vita spersa nel nulla. Lo
sciabordio del mare contro i pilastri del pontile scandiva i
rintocchi di un tempo più vasto di quello umano.
Forse Lorenzo credeva che fosse un privilegio, aver
esplorato l’altra faccia del confine. Lui, invece, pensava che
fosse una cosa da scellerati. Ma non ci fu tempo per dire
altro. Quando si voltò, Lorenzo era sparito tra la folla.
…
Sulla strada silenziosa e spazzata dal vento maligno, si
allontanò con il cuore pesante. Voleva soltanto tornarsene a
casa, ma al contempo un desiderio disperato di ripartire subito,
senza meta, di sparire, lo spingeva lontano, per le strade
della città, sotto la pioggia che incominciava a infittire.
Improvvisamente gli salì nel petto una struggente nostalgia
dei ragazzi dell’Associazione. Forse per loro qualcosa
era cambiato, da quando aveva smesso di essere il loro
insegnante? Loro che avevano visto il fondo del gorgo, che
non s’aspettavano più niente da nessuno, da cui nessuno
s’aspettava niente, naufragati sulle rive di un mondo sconosciuto.
La stessa angoscia provata a Berlino tornava ad
assalirlo. Gli premeva nella gola e nel petto, gli scombinava
i pensieri, e un’unica parola gli si formava nella mente,
come se scritta in grandi lettere di metallo scuro: partire.
Ma dove? Questa volta non avrebbe avuto nessun posto
dove andare né un motivo per farlo. La mente sembrava sul
punto di esplodere.
In quel momento incrociò la via con l’officina del ciclista,
come sempre deserta e buia, e prima di perderla di
vista, s’arrestò, come se colpito da una frustata. Era certo di
aver visto qualcuno emergere dall’officina e subito rientrare
nell’ombra.
Si trattava di un uomo alto, con la schiena curva, i capelli
lunghi e arruffati, la barba incolta e il naso robusto.
Indossava una tuta blu da meccanico, tutta inzaccherata di
grasso e olio. Era riuscito a scorgerlo soltanto per un breve
secondo, prima che quello tornasse dentro, ma era assolutamente
sicuro di aver riconosciuto in lui il vagabondo che
lo aveva seguito fin sulle Alpi.
«Non è possibile…» mormorò, e si diresse verso la bottega,
dove s’infilò titubante, inciampando contro qualcosa
che somigliava a una sedia.
«Chi c’è?» gli chiese una voce dal fondo, ed emerse una
barba arruffata seguita da un grosso naso e due occhi scuri.
Con l’uomo che emergeva dal buio venne anche una zaffata
di grasso e caffè. Poi lo squadrò un po’ da lontano, e con
sufficienza disse: «Ah, sei quel tipo che ogni tanto si ferma
là fuori a guardare.»
Remo indietreggiò fino a uscire di nuovo sulla strada,
nella luce grigia e smorta del temporale in arrivo. Il meccanico
si fermò sulla soglia. Adesso poteva vedere chiaramente
che non si trattava del vagabondo misterioso, del quale
non riusciva a ricordare il volto.
«Va’ a casa, su, prima che venga il temporale» lo esortò
l’uomo con rude gentilezza, come si fa con gli scimuniti.
Non se lo fece ripetere e quasi correndo si diresse verso
casa. Le folate selvagge scuotevano i cespugli di oleandro e
le fronde dei platani frusciavano nell’aria sempre più buia.
Qualche carta volò lungo il marciapiede e un leggero calpestio
lo fece voltare.
Cencioso, pallido e con un sorriso indegno sulla faccia
bianca e floscia, il mendicante lo fissava con espressione
scaltra. Remo perse la testa e stavolta si scagliò contro
l’apparizione, deciso a farla finita. Ma quello cominciò a
correre, era agile veloce e saltava come una capra verso il
lungomare.

…
Aprì gli occhi nel buio. Non era solo, udiva un respiro
pesante a pochi passi da sinistra. Alzò faticosamente la testa
e si guardò intorno. Nell’oscurità non capiva dove fosse.
Della sera precedente gli restava un ricordo impreciso,
simile a un incubo angoscioso. La testa dolorante pesava
come se vi fosse appesa una palla da bowling. Un grosso
cerotto gli copriva la guancia destra e lo zigomo, e con il
dolore tornò il senso di sé. Nel silenzio della notte sembrava
che il cuore battesse come un tamburo.
Tirò su la testa con uno sforzo e vide con orrore una
figura umana afflosciata su una sedia a pochi passi da lui.
Nel buio non la riconobbe.
«Credevi davvero di essere fuggito dalla grotta?» gli domandò
una voce maligna.
«Dove mi trovo?»
«Non lo sai? Non ricordi? Guardati intorno.»
Con fatica ruotò un po’ il capo. L’oscurità era intensa e
un odore di disfacimento gli impregnava il naso fino a stordirlo.
Percepiva odore di legno marcio, guano di uccelli,
salsedine e umidità. Fuori il vento in folate potenti sbatteva
con insistenza una persiana contro il muro.
«La casa…» mormorò, sentendo che il terrore gli rizzava
i capelli.
«Proprio così. Il tuo viaggio finisce qui, dove tutto è
incominciato» gli disse il vagabondo.
«No!» urlò Remo e dal nero di quell’orrore si risvegliò
nella sua stanza…