Innesti. Primo Levi e i libri altrui

A cura di G. Cinelli e R. S. C. Gordon

Oxford, Peter Lang, 2020

Indice del volume

Domenico Scarpa: Prefazione xi

Gianluca Cinelli e Robert S. C. Gordon: Introduzione 1

Parte I Gli strumenti umani

Antonio Di Meo: Primo Levi e William Henry Bragg 19

Mario Porro: Primo Levi e Galileo Galilei 37

Patrizia Piredda: Primo Levi e Werner Heisenberg 55

Alberto Cavaglion: Primo Levi e Giuseppe Gioachino Belli 73

Enzo Ferrara: Primo Levi e Stanislaw Lem 87

Stefano Bartezzaghi: Primo Levi e Lewis Carroll 107

Parte II La condizione umana

Vittorio Montemaggi: Primo Levi e Dante 127

Valentina Geri: Primo Levi e William Shakespeare 143

Simone Ghelli: Primo Levi e Pierre Bayle 161

Martina Piperno: Primo Levi e Giacomo Leopardi 179

Damiano Benvegnù: Primo Levi e Konrad Lorenz 197

Pierpaolo Antonello: Primo Levi e Charles Darwin 215

Parte III Comprendere e narrare il Lager

Charles L. Leavitt IV: Primo Levi e Elio Vittorini 237

Uri S. Cohen: Primo Levi e Vercors 255

Sibilla Destefani: Primo Levi e Charles Baudelaire 273

Stefano Bellin: Primo Levi e Franz Kafka 287

Davide Crosara: Primo Levi e Samuel Beckett 305

Parte IV La ricerca di sé

Martina Mengoni: Primo Levi e Thomas Mann 327

Gianluca Cinelli: Primo Levi e Herman Melville 345

Mattia Cravero: Primo Levi e Ovidio 361

Marco Belpoliti: Primo Levi e Italo Calvino 381

Biografie degli autori 403

Indice dei nomi 407

Introduzione. Radici, trapianti, innesti

di Gianluca Cinelli e Robert S. C. Gordon

L’opera di Primo Levi presenta un caso straordinariamente ricco e in qualche modo enigmatico di intertestualità. Lettore curioso, onnivoro, asistematico, Levi esplorò molteplici campi del sapere – letterari, scientifici, storici e altro – navigando tra libri e riviste di “alto” livello, di divulgazione, per motivi di interesse e di studio o di puro divertimento, spesso accostandosi alle culture straniere in lingua originale, mosso da una curiosità eclettica e dal desiderio intenso di conoscere e di comprendere. Le sue molteplici letture furono, in alcuni casi, speciali e durature, delle «amicizie asimmetriche e feconde» (Opere, II: 7),[1] come scrisse nell’introduzione alla sua antologia La ricerca delle radici, e come tali lo arricchirono e lo modificarono nel corso degli anni. Allo stesso tempo intratteneva rapporti di amicizia e di dialogo, a volte tramite assidue frequentazioni oppure a distanza attraverso lettere e letture, con una serie di figure chiave della cultura umanistica e scientifica italiana e estera del suo tempo – da Nuto Revelli a Mario Rigoni Stern, da Rita Levi Montalcini a Italo Calvino, da Elie Wiesel a Philip Roth. E infine c’è un gran numero di scrittori e di pensatori che a loro volta si sono confrontati con i libri e con l’eredità intellettuale di Primo Levi, creando nuovi dialoghi e nuove fertilizzazioni. Si è prodotta così, dentro e attraverso l’opera leviana, una rete molteplice di contatti e di scambi intertestuali “asimmetrici e fecondi”, che vale la pena di mappare e scandagliare.

Il primo punto di riferimento per chiunque abbia voglia di disegnare una mappa dell’arcipelago intertestuale di Levi, delle sue letture e delle intersezioni variegate tra queste e i suoi libri, è stato e rimane senz’altro La ricerca delle radici, l’“antologia personale” preparata per Einaudi nel 1981. Allo stesso tempo si tratta di un’opera da prendere con cautela, perché non tutte le inclusioni in quel volume sono sempre “feconde”, nel senso che trovano una risonanza forte altrove nell’opera di Levi, e non sempre le “esclusioni” indicano che determinati autori non fossero invece di enorme importanza per lui (come Leopardi e Shakespeare, Boccaccio, e Manzoni, oltre al caso esemplare e di gran lunga più studiato dalla critica, Dante).[2] Gli studiosi non hanno ancora accesso agli scaffali della biblioteca di Primo Levi, che sicuramente riserveranno delle sorprese e delle novità rispetto al “canone” riconosciuto dei “suoi” autori, né – se non in parte – all’epistolario leviano, che promette di essere altrettanto rivelatore e imprevedibile. Ma intanto ci sono a disposizione l’opera in sé e strumenti preziosi che possono aiutare a completare o quantomeno a qualificare il quadro offerto dalla Ricerca, prima fra tutti gli indici “dei nomi di persona e di personaggio” e “delle opere a stampa e dei passi citati” compilati da Daniela Muraca per il terzo volume delle Opere complete di recente pubblicazione (Opere, III: 1269–1342). Strumenti di questo genere, oltre a favorire una rilettura attenta dell’opera stessa, possono già aprire nuovi orizzonti nella rete fitta di allusioni e citazioni del “sistema parodico” di Primo Levi, per dirla con Alberto Cavaglion,[3] e più in generale nella cartografia dei rapporti tra Levi e i libri altrui.

Nella prefazione e nei paratesti della Ricerca, Levi adopera una vertiginosa serie di metafore per rappresentare l’esperienza della lettura e del contatto con i libri. Come già accennato, una di queste è quella, con lontane radici classiche, del libro-amico («amicizie feconde», «compagno di strada», Opere, II: 7, 5), cui possiamo aggiungere alcune metafore affini del matrimonio (7), dell’amore («i miei amori più profondi e durevoli», 8) e dell’affinità («affinità fra gli elementi [e] affinità fra gli individui», 7). La prefazione accenna velocemente inoltre a un’idea meccanica, quasi da laboratorio, della lettura, quando Levi parla di libri letti come degli «input letterari […] input ibridi» (5) che ha assorbito e integrato negli anni. Poi, evocando l’abitudine alla lettura vorace ereditata da suo padre e dagli zii, ricorda come leggere in famiglia fosse «un vizio», «una ginnastica mentale», «una fata morgana», arrivando perfino a paragonare l’ambiente libresco a un fluido amniotico, che prepara alla nascita dello scrittore («così come il feto di otto mesi sta nell’acqua ma si prepara a respirare», 6). Levi prosegue sulla strada dell’immaginario corporale, sfoderando una ricca e alquanto grottesca metafora bio-psico-fantastica, per cui svelare le sue letture più intime gli sembra come l’atto di «un chirurgo che gli apra la pancia» e guardi «nell’ecosistema che alberga insospettato nelle [sue] viscere, saprofiti, uccelli diurni e notturni, rampicanti, farfalle, grilli e muffe» (7). Questo bestiario di animali-libri è stato quindi ingoiato da Levi (infatti parla altrove di libri «ingeriti», 5) e la metafora materiale, digestiva e animalesca è ripresa poche righe dopo, dove si muta in un lettore-tarlo davanti al libro-legno, uno che preferisce «fare un buco e poi rosicchiare dentro a lungo, magari per tutta la vita, come fanno i tarli quando hanno trovato un legno di loro gusto» (9).

Questa proliferazione barocca di metafore per la lettura – lontana anni luce dallo stereotipo del Levi sobrio e razionale in tutti i suoi aspetti e valori – è fortemente indicativa: per Levi, leggere, interagire con la parola scritta, comporta una dinamica complessa, ugualmente viscerale e consapevole e in qualche modo organica, misteriosa e fantasiosa. Questo assunto trova conferma nella metaforica dominante dell’antologia, evidente fin dal titolo, che non è tanto zoologica, quanto botanica: i libri come “radici” – della persona, della sua cultura e forma mentis e dei suoi scritti – non tanto o non soltanto nel senso di radice come origine, quanto in senso strettamente botanico, come seme, matrice genetica, inizio di un processo di crescita e di sviluppo, in simbiosi con un terreno fertile che lo circonda. Altre immagini zoo-botaniche e bio-genetiche spunteranno nei paratesti della Ricerca dando conferma di questa intuizione. Nel presentare

per esempio il brano scelto da Remorques di Vercel – un libro essenziale per Levi, perché letto in un momento di svolta drammatica nella sua esistenza, a Monowitz il 18 gennaio 1945, il primo giorno dopo la partenza dei nazisti, giorno in cui aspettava la morte (8) – Levi parla di come un libro, o meglio aspetti di un personaggio di un libro, possano essere trasportati nel libro di un altro, come in un trapianto: «la ricerca della paternità è sempre un’impresa incerta, ma non mi stupirei se nel mio Libertino Faussone si trovasse trapiantato qualche gene del capitano Renaud» (115). È il trapianto di un seme in un terreno nuovo, oltre che un trapianto bio-medico di un organo da un corpo all’altro.[4] E ancora, nel presentare un altro scrittore fondamentale per lui, scrittore amico-nemico e interlocutore a distanza, cioè Paul Celan, Levi impiega – con potere suggestivo ancora più forte per il discorso dell’intertestualità che stiamo portando avanti – la metafora che si è scelta per il titolo di questo libro: «leggo che Celan l’ha ripudiata [la poesia Fuga di morte (Todesfuge)], non la considerava la sua poesia più tipica; non mi importa, la porto in me come un innesto» (211; enfasi nostra).

L’innesto si addice perfettamente al caso di Levi lettore dei libri altrui. Ibridizzante, operante a livello bio-organico ma anche meccanico-artificiale, l’innesto congiunge due soggetti distinti e genera un nuovo organismo. L’innesto combina più spesso anche un elemento minore a un tronco maggiore, rispecchiando la curiosità obliqua, per così dire “minore”, delle letture leviane in cui lui, profano, si confronta con e attecchisce a monumenti quale Shakespeare o il Vecchio Testamento, ma per trarne intuizioni nuove, sui generis. Come spesso accade in Levi, l’aspetto scientifico e tecnico dell’innesto si rispecchia anche in una dimensione linguistica, oltre a quella di un mestiere, del lavoro. Di quest’ultimo, troviamo un caso particolare nel romanzo Se non ora, quando? dove il personaggio Ariè è uno specialista di innesti: «è proprio il mio mestiere, io e mio padre e mio nonno abbiamo sempre innestato viti» (Opere, II: 559). Dell’aspetto linguistico dell’innesto Levi parla nel suo saggio sulla Piccola cosmogonia portatile di Queneau – «s’incontrano ad ogni passo gergalismi innestati con disinvoltura su termini tratti da tutte le scienze della natura» (Opere, II: 919) – dove è sinonimo di ibrido linguistico ma anche di saperi ibridi e trasfusi, cioè precisamente quel composto di saperi e di conoscenze altrui che convergono nel testo leviano per creare una voce e uno sguardo sul mondo del tutto nuovi.

Con questo volume si è cercato quindi di tracciare i lineamenti di una mappa immaginaria, uno schema degli innesti, intertesti e trapianti dalla e nella opera leviana, che dovrebbe aiutare il lettore a orientarsi meglio nel continente della sua vasta intertestualità.[5] Non si tratta di un’impresa semplice né scontata, perché non tutte le frequentazioni dei libri altrui hanno lo stesso peso, né lasciano tracce uguali nell’opera dello scrittore. Né tutti i possibili percorsi sono praticabili: alcuni s’interrompono di colpo, non tutti gli innesti attecchiscono. Ne abbiamo selezionati alcuni che ci sono sembrati particolarmente fecondi e significativi per comprendere meglio aspetti della poetica e della visione del mondo di Levi – la sua tendenza a integrare ragione e istinto, creatività e conoscenza, immaginazione e studio; la curiosità; la visione di una cultura moderna in cui umanesimo e sapere tecnico-scientifico dialoghino insieme –. Abbiamo inoltre esplorato altri casi di affinità in cui Levi e i libri altrui ci sono parsi entrare in un dialogo reciproco, anche se a volte implicito. Ovviamente ci sono delle assenze, anche molte, ché di tutto non si può parlare. Mancano autori importanti come Manzoni, Conrad e Coleridge, sui quali però già esistono contributi critici che esplorano ampiamente la rete degli scambi intertestuali;[6] così come disponiamo già di studi su alcune figure il cui accostamento a Levi non è scontato; per citare solo alcuni nomi non trattati qui (o soltanto en passant), Empedocle, Lucrezio, Marco Polo, Rabelais, Parini, Dostoevskij, Wittgenstein, Huizinga, Saramago, Perec, o Sebald.[7] Altri aspettano ancora un’indagine approfondita (per esempio Levi e Pirandello, Huxley, Villon, Aristotele, ecc.).

Abbiamo pensato invece di rispettare l’eclettismo del nostro autore e dunque di rivisitare alcuni nomi noti per il rapporto che Levi intratteneva con i loro libri (Calvino, Dante, Kafka), ma con occhi nuovi; di approfondire la conoscenza della frequentazione di altri nomi letterari canonici e allo stesso tempo cari a Levi (Leopardi, Mann, Melville, Shakespeare), e poi di lasciare spazio ad altre “coppie” altrettanto importanti ma meno studiate (Belli, Carroll, Vercors, Vittorini). Accanto agli autori del campo letterario abbiamo cercato di privilegiare quelli delle discipline scientifiche – inclusa la cultura della divulgazione, poco diffusa in Italia e di cui Levi invece riconosceva l’utilità e la dignità (Bragg, Darwin, Galileo, Heisenberg, Lorenz), perché proprio lì forse affonda la radice più vorace della cultura “poliedrica” di Levi.

Ci sono poi dei casi che ricordano il lavoro dei radiotelescopi, per usare un’altra metafora cara a Levi: così come l’astronomo “coglie” una perturbazione del campo magnetico o un’emissione di onde radio senza poter vederne la fonte, così alcuni saggi inclusi nel volume esplorano i confini visibili della mappa dell’intertestualità leviana costruendo affascinanti ipotesi connettive tra Levi e autori che lasciano traccia di sé nell’uno – e talora, forse – negli altri anche senza un contatto diretto o eclatante (Bayle, Beckett, Lem).

I contributi

Organizzare la vasta collezione di saggi qui raccolti non è impresa semplice e sicuramente richiede un certo metodo, anche e soprattutto coerentemente con la decisione di non interpretare l’ampiezza e l’eterogeneità delle letture leviane come mero eclettismo. Primo Levi fu sempre assolutamente consapevole dei benefici di una cultura estesa e trasversale così come del pericolo insito nell’affascinante pratica dell’eclettismo. I saggi qui raccolti cercano di portare in luce il modo “rizomatico” in cui Levi esplorò il sapere e la cultura, tenendo però conto dei due maggiori assi della sua formazione e inclinazione, cioè la letteratura e le scienze fisiche e naturali. Questi sono i due campi in cui avvengono le esplorazioni e le scoperte più fruttuose e dove quindi anche penetrano più a fondo le radici del pensiero e della scrittura di Levi, dando frutti non occasionali e duraturi. I saggi sono raccolti in quattro sezioni, “Gli strumenti umani”, “La condizione umana”, “Comprendere e narrare il Lager” e “La ricerca di sé”. Ognuno rappresenta una direzione di ricerca del pensiero e dell’arte di Levi e accoglie i capitoli che esplorano le relative fasi e caratteristiche del dialogo di Levi con i libri altrui.

Parte I. Gli strumenti umani

Il primo strumento di cui Levi si servì per affrontare l’impresa di comprendere il mondo e la vita fu certamente la chimica, cui è dedicato il primo capitolo della sezione, di Antonio Di Meo, sull’importanza ricoperta dal lavoro di William Henry Bragg sul pensiero dello scrittore torinese. Si tratta di uno dei primi, fondamentali incontri di Levi, quando nel 1934 legge L’architettura delle cose e comprende che il caso è una struttura fondamentale del cosmo e della vita, e che la “realtà” stessa dev’essere compresa a partire dalla descrizione del complesso mondo invisibile degli atomi. Di Meo sostiene che «forse anche questo spinse Levi a scegliere la chimica perché intravedeva nelle pagine di quel libro il disvelarsi di un “ordine numerico” e di una serie di “forme” sotto l’apparente caos della realtà sensibile» (infra, p. 26–7). Ma soprattutto, questa “iniziazione” lo convinse che la chimica fosse anche «una sorta di “semiotica” nel campo del sensibile, mediante la quale è possibile fare induzioni sugli eventi che stanno avvenendo in maniera nascosta» (infra, p. 28).

Se in Bragg Levi trovò una ricca vena d’ispirazione teorica, il secondo capitolo di Mario Porro investiga come Levi trovasse in Galileo Galilei, il vero padre della scienza moderna, non solo un maestro di stile narrativo ma soprattutto un convinto sostenitore della dimensione pratico-empirica della scienza, come qualcosa in cui l’attività materiale, il lavoro delle mani, è non meno importante e nobile di quello della mente. Leggendo Galilei, Levi giunge a comprendere a fondo che «è grazie alla “saviezza tecnica” delle mani che l’uomo stabilisce un rapporto “corposo” con il mondo, si misura con la materia e così certifica la propria identità di homo faber fortunae suae, come chiedeva l’umanesimo: se è costruttore del suo destino, lo è in primo luogo in quanto artefice di strumenti» (infra, p. 48).

Il terzo capitolo, firmato da Patrizia Piredda, esplora ancora più a fondo il modo in cui Levi vedeva nella scienza una chiave per comprendere la realtà tout-court, portando in luce un’inattesa “affinità” metodologica esistente tra la riflessione di Levi sul linguaggio e quella di Werner Heisenberg sulla rivoluzione della meccanica quantistica. Al centro del capitolo sta la questione di come sia possibile rappresentare (o spiegare o comprendere) qualcosa che sfugge ai parametri abituali di comprensione e soprattutto al linguaggio comune. Argomentando attorno all’enorme potenziale espressivo e conoscitivo della metafora, Piredda giunge a sostenere che il paradigma “vero-falso” è uno dei nodi più problematici del pensiero di Levi, perché se lo scrittore «rinuncia al concetto di certezza», tuttavia «non abbandona quello di verità» (infra, p. 70), il che produce un’aporia nel momento in cui testimoniare il Lager implica “credere” alla verità della memoria, la quale è invece “instabile” e intimamente “incerta”.

La riflessione sul linguaggio conduce dunque a un aspetto della lingua che sempre affascinò Levi, ovvero il dialetto e la sua forza comica e plastica, come dimostra Alberto Cavaglion nel quarto capitolo, affrontando il rapporto fra Levi e Giuseppe Gioachino Belli riletto alla luce dell’ars citandi (che diventa a volte “furto” e “saccheggio” in chiave parodica). L’ipotesi di lavoro di Cavaglion è che i sonetti romaneschi del Belli «si accreditino come un intermediario chiamato a traghettare il Levi parodista-imitatore “sacro” in direzione del Levi parodista-imitatore burlesco e corrosivo» (infra, p. 79–80), perché il poeta romano «accentua in Levi una vena dissacratoria, spinge la narrazione verso il basso, verso la pura materialità » (infra, p. 81). Come nella scienza, così nel dialetto Levi trova un altro strumento per capire la realtà e per contestare quell’assunto che rifiutava già ai tempi della scuola, cioè che lo Spirito valga più della Materia, che la cultura umanistica sia un canone sacro e solenne, mentre è proprio nella dissacrazione (attraverso il riso) che la letteratura diventa una lente per osservare la vita da vicino.

Il vicino e il lontano, e l’artificio retorico necessario per muoversi fra i due estremi, compongono il filo rosso che attraversa il quinto capitolo della sezione, in cui Enzo Ferrara pone a confronto la scrittura fantascientifica di Levi con quella di un altro grande autore, verosimilmente noto al torinese, il polacco Stanislaw Lem. Entrambi scrittori-scienziati perseguitati dal potere totalitario, Levi e Lem trovano nella fantascienza un momento non tanto di evasione quanto di rifocalizzazione della realtà, attraverso lo straniamento e l’invenzione linguistica. L’incontro tra i due avviene quindi sul confine fra le “due culture”, perché «Levi e Lem sanno che in realtà le scienze umane e quelle naturali sono co-dipendenti e hanno bisogno le une delle altre per rinnovarsi e analizzarsi nei metodi e negli strumenti, mentre l’eccessiva tendenza alla specializzazione del sapere – il riduzionismo – è perniciosa» (infra, p. 102).

Nel sesto e ultimo capitolo della sezione, Stefano Bartezzaghi esplora più a fondo l’aspetto del gioco e dell’estro setacciando nell’opera di Levi le tracce della presenza di Lewis Carroll, e interrogandosi sull’interessamento crescente di Levi nei confronti del linguaggio e dei giochi linguistici (il palindromo su tutti) a partire dagli anni Settanta. Il rapporto che emerge fra i due scrittori è enigmatico, tanto che Bartezzaghi sostiene che «la “radice” carrolliana o ha agito in segreto o si è innestata solo nell’ultimo decennio di vita di Levi, quando l’apertura a scritture ed esperienze nuove lo ha portato a diverse forme di dialogo verso interlocutori esterni» (infra, p. 119). La dualità, l’asimmetria e il rispecchiamento sono altrettanti giochi in cui la figura di Carroll appare per un attimo in filigrana nella scrittura leviana, senza che tale “dialettica” si risolva mai in una sintesi.

Parte II. La condizione umana

Levi era anche un lettore ambizioso, perché la conoscenza secondo lui non procede mai separata dalla comprensione della sfera umana, fatta più di osservazione e partecipazione che di giudizio. È sorprendente la capacità mostrata da Levi di apprendere qualcosa sulla cosiddetta “natura umana” attraverso molteplici esperienze, anzitutto quelle dirette e spesso drammatiche imposte dalla vita, poi quelle intellettuali, le quali includono ugualmente la sua frequentazione della cultura umanistica e quella scientifica.

Nel primo capitolo, Vittorio Montemaggi esplora un classico dell’intertestualità leviana, cioè la sua profonda e vasta frequentazione della Commedia di Dante, dalla prospettiva originale della riflessione sull’umanità. Tale riflessione implica l’esplorazione di quelle «dinamiche […] consce e inconsce, attraverso le quali il nostro interagire gli uni con gli altri diventa parte integrante del processo fondamentale ma anche in parte misterioso per cui siamo consapevoli della nostra consapevolezza» (infra, p. 127). Dante rappresenta per Levi un faro in ogni stagione della sua vita e della sua creatività e con il suo inconfondibile realismo visionario rifornisce l’immaginario di Levi di idee profonde e dinamiche, soprattutto sempre attuali, sugli istinti sociali, sul valore dell’amicizia, sul bisogno che ognuno prova di ritrovarsi nella relazione con gli altri.

Il secondo capitolo è firmato da Valentina Geri, la quale studia il ruolo e il significato che la lettura di un’altra figura universale della letteratura, Shakespeare, assume nell’opera di Levi. Anche qui si tratta di una frequentazione lunga e costante nel tempo. «Attraverso Shakespeare – scrive Geri – Levi tenta di descrivere l’essenza intima della natura umana e il mondo nel quale viviamo, entrambi visti nella loro specificità ma anche nella loro interezza» (infra, p. 143). Nelle potenti passioni umane descritte e rappresentate da Shakespeare Levi riscontra, in altri termini, l’inevitabile instabilità dell’animo umano, che non necessariamente è un ostacolo bensì una risorsa per adattarsi alla vita e comprendere l’esperienza nelle sue sfaccettature paradossali.

Nel terzo capitolo Simone Ghelli si lancia nell’impresa di ipotizzare un percorso di lettura leviano di cui non è dato trovare riscontri filologici precisi, ma che è tuttavia percepibile “nell’aria” e nelle opere del torinese. Si tratta di una risonanza con il pensiero filosofico di Pierre Bayle e della sua riflessione sulla sofferenza nell’orizzonte speculativo di Levi, il quale tornò sovente a meditare sul problema del male e sulla spinosa questione dell’assenza di Dio e dell’impossibilità di fornire una giustificazione della vita e del mondo. Ghelli arriva così a sostenere che «la posizione di Levi esprime una profonda consapevolezza filosofica, una concatenazione non casuale di concetti e argomenti riconducibile a una tradizione ben precisa: quella dell’ateismo moderno» (infra, p. 165–6).

Nel quarto capitolo, Martina Piperno prende spunto dal tema della tecnica per individuare una fitta serie di legami tra Levi e il Giacomo Leopardi soprattutto delle Operette morali, oltre che di altre prose, da cui emerge una forte convergenza di prospettive «sulle macchine e sui rapporti fra tecnologia e società» (infra, p. 186–7). Ciò che in particolare sembra avvicinare le rispettive riflessioni è il problema dell’automazione e della perdita di spontaneità, la sostituzione della facoltà umana di immaginare con l’artificio tecnico. Sospesa tra il fascino e il pericolo della “scommessa prometeica”, la riflessione sulla tecnica solleva sì preoccupazioni ma anche apre l’orizzonte del “caso” e promette infinite possibilità per un’umanità che ha perso fiducia negli idoli e appare incapace di «prevedere o progettare il proprio avvenire» (infra, p. 195).

Nel quinto capitolo, Damiano Benvegnù approfondisce l’indagine chiamando in causa una delle più fruttuose e affascinanti passioni intellettuali di Levi, quella per l’etologia e più in particolare per i libri di Konrad Lorenz. La frequentazione di Lorenz solleva anche interrogativi inquietanti, connessi con l’adesione del naturalista al nazismo nel 1938, su cui Benvegnù intesse un’accurata riflessione critica che, lungi dal voler giudicare nel merito la figura e il lavoro di Lorenz, tratteggia in chiaroscuro «l’attitudine ad un tempo creativa e problematica di Levi rispetto alle teorie etologiche di Lorenz, la sua doppia volontà di servirsene sia per creare un’arte nuova che abbia per protagonisti anche gli animali non-umani che per spiegare quanto accadde ad Auschwitz» (infra, p. 213).

Il capitolo che chiude la sezione vede Pierpaolo Antonello riflettere sull’influenza che Charles Darwin ebbe sul pensiero di Levi in senso specifico, come scienziato, e in senso lato, perché «la ricezione di Darwin entra come uno strumento di comprensione dell’uomo all’interno di un quadro complessivo, che ha desinenze epistemologiche e espressive varie» (infra, p. 216). La teoria evoluzionistica del naturalista inglese, infatti, fornisce una chiave di comprensione del mondo moderna e laica, che mette in discussione gli schemi teleologici del creazionismo, e al contempo offre a Levi uno spunto per collocare la sfera dell’umano nel più ampio dominio dell’evoluzione di tutte le forme viventi, cogliendo nell’Origine delle specie «una visione globale del mondo umano e naturale, un “grande disegno”, che si colloca su un asse temporale trans-storico» (infra, p. 232), all’interno del quale la visione scientifica incontra il mito – e dunque l’arte del narrare.

Parte III. Comprendere e narrare il Lager

Questa terza sezione è dedicata a esplorare quella che rimase sempre la questione centrale e più urgente della scrittura leviana, ovvero l’elaborazione dell’esperienza di Auschwitz in una forma esteticamente comunicabile e moralmente accettabile. Si tratta, come la critica ha spesso mostrato e come ogni lettore può immaginare, di un tema complesso e delicato, dove il dialogo interseca il conflitto e spesso sfocia nella polemica.

Il primo capitolo di Charles L. Leavitt IV introduce la sezione ricostruendo il contesto culturale del “neo-umanesimo” esistenzialista che si diffuse nell’immediato dopoguerra e che influì profondamente sul modo di raccontare e comprendere lo sterminio nazista. Vedendo in Elio Vittorini un autore che si inserì nel dibattito già durante la guerra e prese in seguito una posizione critica nei confronti della riflessione sulla “crisi dell’Uomo”, Leavitt mostra la diversità della posizione di Levi rispetto a quella di Vittorini e quindi «le connotazioni e le conseguenze del rifiuto ad accettare i luoghi comuni del cosiddetto nuovo umanesimo» (infra, p. 239), in nome di una riflessione più problematica sul Lager e sulla responsabilità collettiva.

Il secondo capitolo, firmato da Uri S. Cohen, sposta l’asse della questione sul rapporto fra Levi e Le armi della notte di Vercors, un libro che influì profondamente sulla comprensione dei Lager nell’immediato dopoguerra e nei confronti del quale Levi fu fin da subito scettico e polemico, accusandolo di estetismo e di travisare il problema della sopravvivenza nel Lager. Il libro di Vercors, tuttavia, non mancò di influenzare lo stesso Levi che, sostiene Cohen, cercò per tutta la vita di contestarne la tesi finendo invece in qualche modo a restare egli stesso intrappolato nel problema dell’ambiguità e della compromissione morale del sopravvissuto. Quello con Vercors, quindi fu «un dialogo conflittuale che influì sulla comprensione della propria esperienza di deportazione e sul significato generale di quella vicenda, e che lo condusse direttamente a elaborare il concetto di zona grigia» (infra, p. 256).

Nel terzo capitolo, Sibilla Destefani analizza il modo in cui Levi si rivolge (oltre che a fonti come Dostoevskij e l’Antico Testamento) alla poesia di Baudelaire, all’indomani del ritorno da Auschwitz, sia pure al modo di un «furto inconscio» (infra, p. 273), in cerca di uno stile e di una chiave espressiva capace di trasportare quell’esperienza di orrore sulla pagina scritta, senza cadere nella trappola del “lirico” e del “poetico”. L’istanza “poetica” o “spontanea” della scrittura leviana rappresenta una forza sotterranea ma attiva fin dall’inizio, sospesa tra la citazione e l’allusione, che fa del poeta francese una presenza quasi invisibile eppure riconoscibile nel lessico e nella ricerca espressiva di Se questo è un uomo.

L’autore del quarto capitolo, Stefano Bellin, si concentra su un libro fondamentale per la riflessione di Levi sul Lager e sul tema della vergogna, Il processo di Franz Kafka, con il quale lo scrittore torinese intraprese un vero e proprio “corpo a corpo” traducendolo nei primi anni Ottanta. Svolgendo un’accurata analisi teorica della «funzione svolta da Kafka nello sviluppo dell’identità leviana e sul possibile ruolo del Processo nell’esame interiore che struttura e attraversa I sommersi e i salvati» (infra, p. 289), Bellin interpreta il rapporto Levi-Kafka come un’occasione di profonda interiorizzazione del Lager non solo come esperienza storica ma soprattutto come tragedia morale.

La sezione è infine chiusa dal capitolo di Davide Crosara dedicato al rapporto asimmetrico e tuttavia ricco di affinità fra Levi e Samuel Beckett, adottando la relazione fra voce, corpo e scrittura come prospettiva critica. Attraverso una raffinata comparazione su più opere, Crosara conduce Levi e Beckett a un comune punto di incontro, dove le due estetiche divergenti mostrano punti di convergenza proprio nella riflessione sul silenzio, sul corpo e sulla inevitabile presenza di Auschwitz nell’orizzonte della cultura occidentale successiva al 1945, in un continuo «cortocircuito tra rappresentabile e irrappresentabile» (infra, p. 322).

Parte IV. La ricerca di sé

Non meno importante della comprensione del mondo, della natura umana e dell’esperienza del Lager era per Levi l’esplorazione di sé, un’avventura speleologica che si svolgeva perlopiù in quello che lui chiamava un “sottosuolo” esistente dalla cintola in giù, un mondo curioso e a tratti inquietante dove abitava il Doppelgänger, il «fratello pallido e muto» che inesorabilmente lo riconduceva al ricordo doloroso del Lager e di quelli che non erano tornati. L’interiorità era anche una sfera di riservatezza e pudore per Levi, il luogo degli istinti e anche dei sentimenti, della sessualità (tratteggiata dallo scrittore ma in certo senso osservata da lontano). Struttura fondamentale di questa avventura è l’iniziazione, il rituale attraverso cui si diventa adulti mettendosi alla prova. Qui più che mai si coglie la profondità delle relazioni che Levi instaurava con i suoi padri spirituali e “fratelli maggiori” che, un po’ come Virgilio fa con Dante nel mondo infero, accompagnavano Levi nella sua esplorazione sotterranea.

Nel primo capitolo della sezione, Martina Mengoni ricostruisce il profondo e articolato sodalizio esistente tra Levi e Thomas Mann fin dagli anni Trenta. Così come il “tempo sospeso” di quella che Mengoni chiama «matrice Zauberberg» si trova alla radice della trasfigurazione del Lager in un luogo simbolico di iniziazione e attesa, così la «matrice Giuseppe» (dal manniano Giuseppe e i suoi fratelli) rappresenta il movimento interiore che dall’immobilità dell’esperienza del Lager conduce all’affermazione di sé e alla risalita. Mann è per Levi un «viatico» perché «sulla malattia e la morte ha prima costruito un romanzo iniziatico, per poi tessere la storia dell’eroe mitico che, sceso nella fossa e già morto, è risalito per ben due volte nel regno dei vivi» (infra, p. 344).

Insieme con Mann e Joseph Conrad, un altro autore che negli anni giovanili rappresentò una occasione di esplorare il mare oscuro dell’interiorità fu Herman Melville con il suo poliedrico Moby-Dick, cui Gianluca Cinelli dedica il secondo capitolo della sezione. Affascinato dal modo in cui la scrittura di Melville sia costantemente nutrita dall’esperienza del lavoro tecnico della marineria, allo stesso tempo Levi ammira l’abilità dell’americano nel creare una complessa parabola etica sul mettersi alla prova senza travalicare i propri limiti. Mentre l’esperienza di Ishmael «rappresenta in modo esemplare la quest universale dell’autoconoscenza» (infra, p. 357), Starbuck (su cui Levi incentra la sua lettura più tarda e matura di Moby-Dick) è il «giusto rimasto sommerso la cui vicenda suscita rispetto e pietà» (infra, p. 360). In Moby-Dick Levi si rispecchiò in diversi momenti della vita, trovandovi sempre un’occasione di profonda riflessione etica.

L’esplorazione di sé condusse Levi a definirsi un “centauro”, ovvero un ibrido, e a elaborare una generale visione del mondo dominato dalla “dualità” come compresenza di opposti che convivono in paradossale unione ma non in sintesi. La metafora della metamorfosi è radicata nella scrittura di Levi (in fondo la chimica è la scienza del metamorfismo della materia) e Ovidio ne è il maestro, come argomenta Mattia Cravero nel penultimo capitolo. In particolare, il mito di Tiresia diventa nella Chiave a stella emblematico della condizione del «reduce di una metamorfosi che gli ha cambiato la vita: se da un lato la figura dell’indovino tebano rappresenta metaforicamente i due mestieri di Levi praticati da un solo corpo, dall’altro fa anche riferimento alla non trascurabile parentesi concentrazionaria, mescolando di nuovo realtà, letteratura e finzione» (infra, p. 378).

La discesa nel “sottosuolo” conduce infine all’esplorazione di un’altra “doppiezza”, il rapporto tra lo scrittore e il lettore, in questo caso specifico il più importante lettore di Primo Levi che fu, come argomenta Marco Belpoliti nell’ultimo capitolo della sezione e del volume, Italo Calvino. Egli fu il primo a riconoscere nel giovane testimone di Auschwitz un vero scrittore e a credere in lui. Calvino spinse perché Einaudi pubblicasse di nuovo Se questo è un uomo, sostenne l’esperimento delle prose “fantabiologiche” di Levi-Malabaila e scambiò con lo scrittore torinese lettere che nel tempo mostrano quanto i due fossero “gemelli” «seppur con una personalità letteraria molto diversa» (infra, p. 387): più teorico e ottimista il ligure, più pratico e scettico il torinese, i due furono sempre uniti dal comune interesse per la scienza e dalla «moralità dell’agire e del fare» (infra, p. 394) e nelle opere del suo collega e editor Levi riconobbe soprattutto l’amico e un “fratello maggiore”.

Calvino, figlio di botanici, avrebbe apprezzato forse più di qualsiasi altro interlocutore di Primo Levi la figura dell’innesto come connessione ibridizzante e fertile, organica, testuale o umana.


[1]     In tutto il volume, i riferimenti alle opere di Primo Levi rimandano alle Opere complete, 3 voll., a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 2016–2018 e sono inseriti nel testo in forma sintetica (e.g. Opere, II: 100). Nei casi in cui sia citata un’opera singola di Levi, il rimando bibliografico compare in nota.

[2]     Per Primo Levi questo è un modo diverso di dire io, Opere, III: 225–8. Anche se non attribuibile a un autore singolo, è altrettanto fondamentale l’intertesto della Bibbia in Levi: vedi per es. Anna Baldini, Intertestualità biblica nell’opera di Primo Levi, «Allegoria», 45 (2003): 43–64.

[3]     Alberto Cavaglion, Il sistema parodico, in id., e Paola Valabrega, “Fioca e un po’ profana”. La voce del sacro in Primo Levi, Torino, Einaudi, 2018, p. 128–51.

[4]     Tra i tanti altri lessici dell’immaginario di Levi c’è anche quello medico: vedi Martina Mengoni, «Doktor» Primo Levi. Arte medica e scienza fantastica, con una trama leopardiana, «Intersezioni», 34, 1 (2014): 115–32.

[5]     Per un uso analogo del concetto in campo letterario, anche se in un contesto storico molto diverso, si veda il recente volume di Andrea Torre, Scritture ferite. Innesti, doppiaggi e correzioni nella letteratura, Venezia, Marsilio, 2019.

[6]     Sul rapporto tra Levi e Joseph Conrad ricordiamo: Riccardo Capoferro, Primo Levi e Joseph Conrad. L’uomo, la natura e l’avventura del lavoro, «Contemporanea», 12 (2014): 11–26; Gianluca Cinelli, Esperienza, etica e autobiografia. L’influenza di Joseph Conrad su Primo Levi, «Annali di Anglistica Pisana», 14, 1–2 (2017): 99–107; Martina Mengoni, “Ordinary, irresponsible, and unruffled”: Libertino Faussone versus Captain MacWhirr, «Annali di Anglistica Pisana», 14, 1–2 (2017): 87–97. Sulla presenza di Alessandro Manzoni nell’opera leviana ricordiamo: Andrea Rondini, Manzoni e Primo Levi, «Testo», 60, 31 (2010): 49–86; Gianluca Cinelli, Alessandro Manzoni e Primo Levi sulla funzione etica della letteratura, «Spunti e ricerche. Rivista d’italianistica», 27, 1 (2012): 8–29. Su Levi e Coleridge: Lina Insana, Arduous Tasks. Primo Levi, Translation and the Transmission of Holocaust Testimony, Toronto, Toronto University Press, 2009, p. 56–92.

[7]     Per i casi singoli, si vedano: William Kluback, Primo Levi, a Friend of Empedocles and Rabelais, «Journal of Evolutionary Psychology», 18, 3–4 (1997): 164–73; Stuart Gillespie e Donald MacKenzie, Lucretius and the Moderns in The Cambridge Companion to Lucretius, a cura di Stuart Gillespie e Philip Hardie, Cambridge, Cambridge University Press; 2007, pp. 306–24 (p. 307–12); Andrea Rondini, “Ve lo giuro”. Primo Levi tra Konrad Lorenz e Marco Polo, «Rivista di letteratura italiana», 3 (2007): 131–40; id., Parini, Primo Levi e la comunicazione, «Studi sul settecento e l’ottocento», 1 (2006): 19–29; Alberto Cavaglion, Dostoevskij presso Primo Levi, «Belfagor», 56, 4 (2001): 429–35; Davide Sparti, Let Us Be Human: Primo Levi and Ludwig Wittgenstein, «Philosophy and Literature», 29, 2 (2005): 444–59; Sara Vandewaetere, Playing After Auschwitz: The Case of Primo Levi and Johan Huizinga’s Homo Ludens, «Incontri», 30, 1 (2015): 46–55; Alessandro Scarsella, José Saramago e Primo Levi: gli ultimi centauri, in L’acqua era d’oro sotto i ponti, a cura di Giuseppe Bellini e Donatella Ferro, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 279–84; Judith Kasper, Trauma und Affektabspaltung in der Holocaust-Literatur: Primo Levi, Georges Perec und W. G. Sebald, in Handbuch Literatur und Emotionen, a cura di Martin Koppenfels e Cornelia Zumbusch, Berlino, de Gruyter, 2016 pp. 496–511. Per un tentativo generale di indagare gli intertesti di Levi, anche se con un metodo diverso al nostro, se veda Ricercare le radici. Primo Levi lettore-lettori di Primo Levi, a cura di Raniero Speelman e altri, Utrecht, Igitur, 2014; e cfr. le riflessioni di Federico Pianzola, Primo Levi, un “lettore strampalato”, in Biblioteche reali, biblioteche immaginarie. Tracce di libri, luoghi e letture, a cura di Anna Dolfi, Firenze, Firenze University Press, 2015, pp. 415–28.

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