Il 1 novembre del 2021 ricorrerà il centenario della nascita del grande scrittore di Asiago
Se il 2019 ha visto trascorrere le celebrazioni dei cento anni dalla nascita di Primo Levi (Torino, 1919-1987) e Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004), il 2021 darà l’anno del terzo protagonista di questa bella storia di amicizia e avventura letteraria, Mario Rigoni Stern (Asiago, 1921-2008). I tre, infatti, nati e cresciuti in ambienti completamente diversi durante il ventennio fascista, si ritrovarono coinvolti nelle vicende della guerra in tempi e modi diversi e drammatici. Primo Levi subì gli effetti delle leggi razziali nel 1938, quando era studente di chimica all’università di Torino, e nel 1943 fu arrestato dopo una breve esperienza partigiana. Deportato ad Auschwitz all’inizio del 1944, vi rimase prigionieri fino alla liberazione del campo, avvenuta il 27 gennaio del 1945. Nuto Revelli visse l’atmosfera degli ventennio con entusiastica partecipazione al regime, soprattutto alle attività sportive dei Campi Dux. Nel 1939 entrò come cadetto nell’Accademia Militare di Modena, per uscirne nel 1941 come sottotenente di fanteria. Assegnato al corpo alpino, partecipò alla guerra in Russia nel 1942 e quindi alla disastrosa ritirata dell’inverno 1942-1943, durante la quale maturò un convinto sentimento antifascista che, dopo l’8 settembre, lo portò a scegliere la via della resistenza armata. Fino all’aprile del 1945 combatté contro i fascisti e i tedeschi, rimanendo anche gravemente ferito nel settembre del 1944. Mario Rigoni Stern, dei tre, era il più giovane. Nato nel paese vicentino di Asiago, appena ricostruito dopo la devastazione della guerra (nel 1916 l’intero Altopiano dei Sette Comuni fu teatro della violenta offensiva austriaca nota come Spedizione punitiva), si arruolò nel 1939 per un corso militare di sciatori-rocciatori, in Valle d’Aosta. Nel 1940 partecipò alla guerra contro la Francia, nel 1941 combatté sui monti dell’Albania nella campagna contro la Grecia, e nell’inverno del 1941 fu in Russia, aggregato al battaglione Cervino. In Russia tornò ancora nel 1942, stavolta nel battaglione alpino Vestone (Divisione Tridentina), e partecipò alla ritirata del 1942-1943. Tornato in Italia, rimase di stanza in Trentino fino all’8 settembre, quando i tedeschi lo catturarono vicino al confine e lo deportarono in Germania insieme con altri 600.000 soldati italiani. Trascorse venti lunghi mesi come Internato Militare Italiano, in diversi campi della Masuria (Polonia) e poi della Stiria (Austria), dove lavorò come schiavo nelle miniere. Nel 1945 tornò a casa a piedi, sfinito e psicologicamente devastato. Da queste esperienze dolorose nacquero tre grandi scrittori memorialisti che per decenni avrebbero continuato a scavare nei ricordi per comprendere il passato e per sanarne le ferite. Di Nuto Revelli e Primo Levi ho scritto già in altri post precedenti, e oggi voglio proporre qui per i miei lettori un testo su Mario Rigoni Stern, che pubblicai già nel 2007 sul sito Reti di Dedalus (e allego sotto il PDF scaricabile).
Lo scrittore in guerra e in pace
Mario Rigoni Stern è oggi un classico del Novecento italiano, ignorato dalla critica accademica, e riduttivamente compreso dai molti commentatori che ne citano l’abusato ritornello di Giuanin sorvolando sulla complessità della sua opera; è un autore che il lettore medio italiano conosce presto, come Primo Levi, essendo Il sergente nella neve una lettura classica della scuola media, e perlopiù la sua fama si arresta a quest’opera d’esordio che, e forse è questo a renderla tanto intensa, esprime già i caratteri fondanti della sua poetica. In verità la fisionomia dello scrittore Rigoni Stern non è univoca né banale, né si esaurisce con il ruolo di memorialista di guerra. Il sergente nella neve (1953) gli portò il successo, artefice Elio Vittorini che ne scoperse il talento, ne editò il libro (con interventi massicci in sede stilistica) e lo etichettò non senza conseguenze come scrittore d’occasione, capace di scrivere soltanto di cose viste. Col senno del poi diciamo oggi che quel libro contiene già tutti gli elementi che Rigoni non ha mai cessato di rielaborare e raccontare, ma anche sappiamo che il ruolo di memorialista lo definisce solo in parte e non gli rende giustizia. Infatti già con il secondo libro, Il bosco degli urogalli (1962), pubblicato dopo dieci anni di silenzio, lo scrittore di Asiago sembrò abbandonare il tema della guerra per dedicarsi al racconto della vita che era ricominciata nella sua terra d’origine, fra i monti e i boschi dell’Altipiano dei Sette Comuni, con storie di caccia, di animali, di vita rustica e montanara, e senza disdegnare una piccola parentesi di storie di “mestiere”, ispirate all’esperienza autobiografica di impiegato del catasto. Nel 1971 (il primo Rigoni non fu un autore prolifico, anzi elaborò i propri libri con grande lentezza, tenendo il passo della memoria) tornò a scrivere della guerra, stavolta non del capitolo russo, bensì della prima fase del conflitto che, sfortunatamente, egli combatté per intero dal giugno 1940 contro la Francia, fino all’inverno 1943, in ritirata davanti ai Russi. Quota Albania è il racconto fresco e avventuroso dell’esperienza tremenda che la guerra fu per il giovane Mario e per molti altri della sua generazione, ignorante, cresciuta all’ombra di un fascismo provinciale e fanfarone, nutrita di retorica bellicosa ma tutt’altro che partecipe della “gloria” dell’impero. La guerra è una grande avventura romantica e pericolosa, filtrata dietro la lente deformante dello spirito di corpo alpino, per cui anche la dimensione agonistica della vita in montagna diventa parte integrante dell’esperienza militare. Ma la guerra appare lentamente al giovane protagonista di Quota Albania l’assurda pazzia che è, un’aggressione contro un popolo civile e fratello prima (la Francia), e contro una arretrata nazione di pastori e montanari (la Grecia) poi, condotta con arroganza e povertà, senza armi né indumenti, sotto piogge torrenziali e tormente di neve, e scoprendo che un montanaro veneto capisce di più la vita di un montanaro albanese che quella di un pugliese o di un napoletano. Nonostante ciò, Quota Albania non esprime un dissenso politico, né un tardivo antifascismo del senno del poi; così come ne Il sergente nella neve, anche qui Rigoni rimane fedele ad un ideale di autobiografismo limpido, senza trucchi o manomissioni, non gli interessa crearsi un’identità posticcia di ribelle o di antifascista in nuce, ma tenta di presentarsi più chiaramente possibile per quel che fu, un giovane ingenuo e inesperto della vita, romantico, sportivo, con qualche lettura disordinata alle spalle e un piccolo sogno di amore adolescenziale per la testa. Questo autoritratto, che nulla ha di titanico, si fonda più sull’affettuosa rievocazione dei vecchi compagni d’arme, molti dei quali caduti, che non sull’introspezione psicologica di sé. Chi fosse il giovane Mario soldato in Albania e in Russia lo dicono la descrizione dei paesaggi e della vita quotidiana dei suoi compagni, i brevi momenti di lirismo idillico, i fugaci ricordi, affioranti nelle lunghe notti in trincea, della felice giovinezza trascorsa in famiglia. Proprio un’attenta lettura degli slanci lirici de Il sergente nella neve, mostra quanto l’intervento di Vittorini influì sullo stile della prima opera dello scrittore, e al contrario Quota Albania esprime una maturità stilistica più personale e libera, una prosa improntata alla semplicità e all’essenzialità delle descrizioni e all’uso ridotto dei commenti. L’idea di Rigoni circa la guerra è infatti semplice e chiara: è violenza contro la natura, è un’esperienza che separa gli uomini fra loro e crea dissociazioni e lacerazioni anche dentro ogni individuo, eppure è giusta quando deve ci si deve difendere dall’offesa di altri uomini mossi dalla violenza. Egli fu soldato di truppa, promosso fino al grado di sergente maggiore, ed ha sempre ribadito nelle proprie memorie di essere stato un ragazzo ingenuo e obbediente (forse anche in virtù di un’educazione religiosa che però non affiora alla scrittura se non per rari momenti), pervaso dal senso del dovere e della responsabilità verso i compagni che dipendevano da lui. Non ebbe la lucida consapevolezza di un Nuto Revelli (ma questo fu ufficiale di carriera, diplomato, fascista che credé nella guerra per la vittoria e che dall’esperienza di Russia maturò subito un accanito antifascismo) di essere combattente in una guerra di aggressione ingiusta e al fianco dei nazisti efferati assassini: eppure scrisse molto bene Giuseppe Cintioli che Rigoni narra la propria esperienza di invasore come se stesse pensando, invece, alla propria terra calpestata da truppe straniere.[1]

Il sentimento etico, ispirato ad un concetto di umanità tutt’altro che astratto, che lo scrittore diffonde nei suoi libri di guerra, è riassunto nel concetto della “paesanità”, ovvero la capacità di condividere la propria cultura al di fuori dei confini nazionali attraverso il lavoro: “ci sono momenti, in guerra e in pace, in cui gli uomini scoprono i punti di contatto reali. Essi si celano in ciò che si fa. Un pastore spagnolo e uno russo, un fabbro tedesco e uno siciliano, grazie all’esperienza trovano una comunione. La paesanità è il modo di legare nella vita: l’opposto della solitudine.”[2] La paesanità è alla radice della solidarietà e decostruisce una retorica militarista e nazionalista del “nemico”, termine che lo scrittore mai usa per designare gli uomini contro i quali si trovò a combattere. Dall’episodio celebre dell’isba piena di soldati russi, dove Rigoni ricevé la zuppa calda dalle mani di una contadina,[3] ai molti di umana compassione e generosità che costellano i ricordi di guerra e perfino quelli del Lager, la solidarietà esprime la pietas dello scrittore e l’essenza conciliatoria della sua scrittura, che conserva della guerra “ricordi che il tempo ha addolcito nella memoria, non perché [si] abbia cancellato quelli tragici, ma perché si ama ricordare di più i gesti gentili e di amicizia che non l’odio e la violenza.”[4] La rievocazione della guerra non è improntata al sentimento tragico della insanabilità della ferita, ma alla pacificazione della memoria e dell’anima con un ritorno alla natura che non vuol essere regressione irrazionalistica entro un mito edenico, ma la riscoperta di una forma del vivere ispirata al rispetto dell’altro e alla condivisione incondizionata del mondo e delle sue risorse. La paesanità è un sentimento etico, non una ideologia di Blut und Soil, e in termini di una estetica del racconto non si fa veicolo di rappresentazioni populistiche della vita umile e rusticale per il fatto semplice ma essenziale di non essere mai concepito separatamente dall’etica del lavoro. Due fabbri, o due contadini, possono comprendersi non in virtù di una presunta purezza e onestà connaturate alle loro rispettive povertà e frugalità, ma in virtù di un comune essere nel mondo, di una filosofia dell’essere in relazione con gli uomini, con il paesaggio e con l’agire simile e condiviso. E non è forse un caso che uno scrittore come Rigoni abbia condiviso una lunga amicizia (di là dal fatto della memoria) con Primo Levi, anch’egli cantore del “mestiere di chimico” e sostenitore di un’etica del lavoro come strumento di affermazione dell’individuo e di ricerca di “virtù e conoscenza”.
Ma il discorso sulla Russia non poteva essersi esaurito con la liberatoria scrittura de Il sergente nella neve, la ferita bruciava e l’urgenza di riconciliare l’io della memoria offesa con quello presente della vita e della scrittura non era estinta, così nel 1973 uscì la raccolta Ritorno sul Don, in cui il racconto omonimo narra il viaggio che l’autore fece in Russia tra il 1971 e il 1972 sui luoghi della sua guerra. con la speranza forse di cicatrizzare definitivamente le ferite e di sostituire i ricordi di morte con immagini di pace. Rigoni trova in Russia “un mondo pulito e pacifico”,[5] eppure lo spettro di un’altra terra, distrutta e lacerata, striscia sotto queste immagini e le avvelena. La Russia che Rigoni cerca è un luogo ideale, dove sopravvive il mondo contadino conosciuto nei giorni della ritirata, un luogo sacro dove portare un saluto ai compagni caduti e “un ringraziamento alla gente dei villaggi e delle isbe”.[6] Un viaggio dunque simbolico nel luogo dove il presente s’intreccia al passato e ne mostra le tracce congelate, identiche a quelle che lo scrittore da ragazzo trovava vicino casa, di uomini venuti a morire sulle Alpi e nelle trincee di una terra lontana, e gli pare strano “vedere la gente tranquilla vicino alla chiesa ad aspettare la corriera, e non sentire i carri armati e le raffiche dei mitra”.[7] Ritorno sul Don è pervaso di stupore, una doppia vista ne attraversa gli oggetti e lo sguardo straniante della memoria ne svela dietro la patina di quotidianità un’anima dolorante che soltanto il reduce riesce a scorgere. Le isbe con le donne sedute sulle panchine diventano quelle che “apparvero dentro il fumo della tormenta”,[8] un villaggio nella steppa mostra segni di scavi dove un tempo c’era il comando di compagnia, e le trincee ancora tagliano il terreno della steppa lungo il Don. Viaggio della memoria fra gli spettri del passato, Ritorno sul Don invece di placare gli incubi e i ricordi li risveglia e li rende se possibile perfino più urgenti, come se non fosse più tollerabile lasciarli andare alla deriva.
In Russia Rigoni comprende l’importanza delle tracce nell’esistenza umana, capisce, ritrovando se stesso e l’ombra dei propri ricordi nei segni lasciati dalla guerra lungo il Don, che è solo grazie alle tracce che le generazioni si riconoscono le une nelle altre e si trasmettono tradizioni, lingua, miti e memoria. Il viaggio in Russia svela allo scrittore il potere evocativo degli oggetti che si ritroverà nel racconto Cartoline, dove sono le “povere cose […] schegge di bombe, cocci di stoviglie in terraglia, recipienti arrugginiti e schiacciati in ferro smaltato d’azzurro, resti di letti, qualche rottame di pietra da focolare, o di stipiti, grumi di vetro fuso”[9] che escono dagli scavi stradali, a raccontare la tragedia della gente, o in Segni lontani, dove scrive l’autore: “non sono uno storico che ricerca nei manoscritti antichi o nei documenti degli archivi; mi accontento di essere un narratore che segue qualche traccia della sua terra”.[10] Se la paesanità lega gli uomini nello spazio, le tracce li accomuna nel tempo: “ogni vicenda che abbiamo vissuto è legata ad altri fatti o vicende che, consciamente o inconsciamente, nel trascorrere del tempo si concatenano e riallacciano a persone e a luoghi.”[11] L’esperienza individuale, e di conseguenza l’autobiografia, cessa di essere un momento specifico che si isola nel tempo e nello spazio, soprattutto cessa di autodeterminarsi come fondamento dell’identità del soggetto, che invece si accorge di riceverne una soltanto dal passato, dalla tradizione sociale in cui è nato e cresciuto, alla quale le esperienze si aggregano dall’esterno e germogliano come innesti su una pianta matura, in una incessante dialettica fra destino e carattere, i quali non si escludono ma si compenetrano.[12]
Così, dopo anni di ricerche e di riscoperta delle radici, Rigoni pubblicò nel 1978 Storia di Tönle, un romanzo che narra attraverso la vicenda di un montanaro vagabondo e contrabbandiere la travagliata storia dell’Altipiano tra la fine della terza guerra d’indipendenza e il 1918, seguito nel 1985 da L’anno della vittoria, che ne riprendeva il filo proprio nel 1919 con il racconto del ritorno degli sfollati sull’Altipiano e della “vittoria della vita sulla morte, del lavoro sulla distruzione.”[13] Sono anche gli anni in cui compaiono molti racconti, tra cui le prime rievocazioni del Lager (in cui fu imprigionato dopo l’8 settembre come Internato Militare, fino al 1945), finché nel 1995 comparve il terzo e ultimo capitolo della trilogia dell’Altipiano, Le stagioni di Giacomo, in cui si narra la storia di Giacomo, compagno d’infanzia dello scrittore, dagli anni della dura ricostruzione fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, che separò le strade di quei giovani e li avviò ad un’esperienza che li avrebbe cambiati per sempre. Tralasciata la memorialistica, ma non disconosciuto il valore etico della scrittura come “dovere di memoria”, Rigoni si avventurò nell’universo del romanzo storico pur tuttavia rimanendo entro i confini domestici dei monti e dei boschi della sua terra. In fondo Vittorini aveva avuto ragione e torto in egual misura, firmando il risvolto di copertina del “gettone” nel 1953.
Un altra forma di scrittura cara a Rigoni, e congeniale alla sua natura di narratore “orale”, è il racconto breve, di cui ha fatto un uso libero ed eclettico, impiegandolo tanto per brevi rievocazioni della vita militare (e della prigionia, su cui tornerò fra breve), bozzetti paesaggistici, sconfinando nella prosa divulgativa del naturalista, descrivendo la vita dei boschi e degli animali, narrando le leggende legate agli alberi, “scambiando esperienze”[14] di caccia e di escursionismo. Ai racconti delegò invece il compito di raccontare il Lager, e probabilmente per la ragione, ma è soltanto un’ipotesi che tenta di aggirare le soluzioni di un facile psicologismo, che l’esperienza della prigionia è contrassegnata dalla monotonia, dalla dilatazione estrema del tempo e dalla noia, e che perciò una intera narrazione lunga sull’argomento non fosse praticabile (è opportuno pensare a tal proposito il carattere episodico di Se questo è un uomo di Levi). Scrive giustamente Falaschi che “l’uniforme e il continuo non sollecitano la memoria. Perché un unico fatto sia raccontato occorre che esso sia distinguibile da altri e perciò reputato eccezionale”[15], e infatti i racconti del Lager di Rigoni sono quasi sempre storie eccezionali di solidarietà umana e di speranza, e tanto più per questa loro natura spiccano nella memoria dai giorni tetri e grigi e tutti uguali. Uno di questi ricordi è particolarmente vivido e rivelatore, e non a caso è narrato nel racconto lungo L’ultima partita a carte (2002), libretto ‘esile di pagine ma denso di vita’[16], che comparve quasi sessant’anni dopo la guerra a concludere un ininterrotto discorso autobiografico proprio su un episodio del Lager: “padre Marcolini mi aveva donato un piccolo Vangelo. Incominciai a leggere. Quando arrivai al Discorso della Montagna tutto mi apparve chiaro, mi sembrava di capire senza alcuna ombra. Era la fame che mi aveva portato a questa chiarezza di pensiero? Capii che gli uomini liberi non erano quelli che ci custodivano, tanto meno quelli che combattevano per la Germania di Hitler. Che noi lì rinchiusi eravamo uomini liberi.”[17] Si tratta di una breve e intensa illuminazione che affiora alla memoria dopo tanti anni, ma che più probabilmente è stata coniata nel presente a suggello di un preciso disegno autobiografico, come atto di nascita di una coscienza etica, maturata nella sofferenza e nell’espiazione, e come definitivo distacco dalla giovinezza per entrare nell’età adulta delle scelte e della consapevolezza.
Il Lager infesta con la sua memoria lacerata ancora la raccolta Aspettando l’alba (2004), allegorico libretto diviso in due sezioni, una incentrata sui tristi ricordi del Lager, in attesa di un’alba di redenzione, appunto, l’altra dedicata a storie di pace e di vita naturale, nei boschi, sui monti, in compagnia di animali, ricordi di tradizioni e amici scomparsi, che ancora però non sono l’alba attesa e sperata, ma il suo buon auspicio. La guerra e la prigionia sembrano essere superate dallo scrittore, oggi più che ottantenne, nonostante l’ultimo ritorno ancora al tema con una raccolta mirata, Racconti di guerra (2006), che però raccoglie e ordina storie già apparse in passato in un unico volume tematico. Nel 2006 è uscito infine l’ultimo libro di Rigoni, Stagioni (Torino, Einaudi, 2006), che della guerra offre un’eco ormai lontana e sopita, appena tiepida come la cenere di un fuoco spento, infatti alla memoria si sovrappone più spesso la storia coi suoi precisi e concisi dettagli, coi suoi numeri, con i suoi nomi: Rigoni è agli antipodi de Il sergente nella neve, in cui non comparivano mai gli elementi, acquisiti a posteriori, della geografia e della consistenza della campagna di Russia, che a quel tempo il giovane sergente non poteva conoscere. Al dettato di verità (e credibilità) della memoria, ormai assodata da un lato, anche in virtù dei libri scritti, che fungono da vera e propria memoria artificiale e persistente, ma condannata a svanire dall’altro, si sostituisce la distanza della storia, e la ritirata di Russia evocata in Stagioni sembra remota quanto il trattato di Villafranca o la battaglia di Canne. Ma non è questo a rovinare il libro, perché in compenso l’autore riscopre una vena ricca, idilliaca, tenera, di memorie personali legate perlopiù all’infanzia, ai ricordi lontanissimi che affiorano riportando in superficie con la scrittura l’esistenza fresca e vivace del giovane Mario nella sua comunità montana arcaica, tradizionalista, in pace armonica con la natura aspra e generosa della montagna. Rigoni trova un passo nuovo della sua prosa, disteso, intimo come mai prima, indugia sui brevi ritratti della madre, del nonno e di altre figure che campeggiarono all’orizzonte della sua infanzia, rievocata con affetto come tempo perduto e caro dei desideri. Dall’altro lato l’intimismo cui lo scrittore approda ha anche qualcosa della rinuncia, della resa davanti all’indifferenza del mondo, e si rinserra nella “cittadella” dell’io, volto all’indietro con lo sguardo al passato, e interessato al presente solo per brevi ma fastidiosi accessi di contemptus mundi, generalmente impostati sulla contrapposizione fra “allora” e “adesso”. La modernità ha tanti aspetti negativi e squallidi, dannosi, alienanti, ma non è giustificato l’elogio incondizionato del passato, quando si moriva di malattie comuni, di miseria, di ignoranza, quando l’analfabetismo era endemico; a tratti si ha l’impressione che Rigoni abbia perso fiducia nella propria capacità di risvegliare negli animi, anche delle persone giovani, il senso critico e responsabile di rispetto di sé, degli altri e della natura, e che per reazione triste e sdegnosa ad una società che degli anziani si libera con insofferenza, volga le spalle al presente e si getti nel suo passato di consolazione. Ma fortunatamente lo sdegno, vero e proprio termometro della tensione morale, vibra contro gli scempi che una non-cultura attuale compie contro la natura, e non lanciandosi in astratte concioni contro l’inquinamento planetario, ma richiamando il singolo individuo al rispetto delle bestie, dei boschi, degli altri uomini che della natura vivono. Con Stagioni, in cui tutte le istanze della poetica rigoniana si mescolano e convivono, l’autobiografia con la divulgazione naturalistica, il racconto con la digressione storica, fino alla citazione e all’invettiva, lo scrittore di Asiago sembra aver fatto coincidere la responsabilità etica con la coscienza ecologica, abbandonando il perverso crinale della storia, lacerata dalle dispute sottili e meno degli accademici, dei giornalisti e dei politici. Le persone civili sono quelle che non lasciano tracce del proprio passaggio nel bosco, che se esteso ad altri campi dell’agire umano e applicato su scala planetaria, assume un valore politico universale: noi Occidentali, punta estrema di eccellenza e di sfacelo della modernità, stiamo devastando il mondo, ma questo spirito violento di rovina nasce nella sfera minima dell’individuo che si aggira da solo e che decide di scalciare un fungo e di devastare un formicaio. Su scala mondiale quell’individuo è un’intera società che disbosca l’Amazzonia, avvelena il mare, spoglia le montagne, ammorba l’aria. Ora, questo patrimonio di saggezza e di moralità non può esprimersi né trasmettersi nella formula del contemptus mundi, del quale è inconsapevolmente capace qualsiasi anziano rassegnato e spaesato, ma nella parola di un grande narratore, ed oggi ne rimangono pochi. E Rigoni è senza dubbio uno di questi.
[1] Cintioli, Giuseppe, Guerra e letteratura di guerra, “Il Menabò”, 1 (1959), 240-252 (p. 249).
[2] Visetti, Gian Paolo, a cura di, Intervista a Mario Rigoni Stern, “La Repubblica” (15 dicembre 2003), p. 27.
[3] Rigoni Stern, Mario, Il sergente nella neve – Ritorno sul Don, Torino, Einaudi, 1990, pp. 132-133.
[4] Rigoni Stern, Mario, Uomini, boschi e api, Torino, Einaudi, 1998, p. V.
[5] Rigoni Stern, Mario, Il sergente nella neve – Ritorno sul Don, op. cit., p. 287.
[6] Ibid., p. 292.
[7] Ibid., p. 305.
[8] Ibid., p. 306.
[9] Rigoni Stern, Mario, Cartoline, in Sentieri sotto la neve, Torino, Einaudi, 1999, p. 79.
[10] Rigoni Stern, Mario, Segni lontani, in Sentieri sotto la neve, op. cit., p. 83.
[11] Rigoni Stern, Mario, Il vino della vita, in Amore di confine, 6a ed., Torino, Einaudi, 2003, p. 27.
[12] Benjamin, Walter, Destino e carattere, in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1995, 31-38.
[13] Rigoni Stern, Mario, Le stagioni di Giacomo, Torino, Einaudi, 2005, p. VI.
[14] Lo scambio di esperienze è la funzione principale alla base del racconto del narratore orale, secondo Benjamin: Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus, op. cit., 247-274.
[15] Falaschi, Giovanni, Autobiografie e memorie, in Brioschi, Franco e Costanzo Di Girolamo, a cura di, Manuale di letteratura italiana, vol. IV, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, 733-764 (p. 734).
[16] Rigoni Stern, Mario, L’ultima partita a carte, Torino, Einaudi, 2002, p. 3.
[17] Rigoni Stern, Mario, L’ultima partita a carte, op. cit., p. 107.